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The Sinner: la manipolazione mentale in diverse forme

Attenzione, contiene spoiler!
Una serie tv che conduce una critica pungente alla fede repressiva e alla sua capacità violenta di scatenare l’orrore nell’animo umano. L’ha recensita Micaela Grosso sul n. 2/2022 della rivista Nessun Dogma

The Sinner è una serie thriller-investigativa girata dal 2017 al 2021 che ha ricevuto diverse nomination agli Emmy, ai Golden Globe e ai Critics’ Choice Awards. In Italia sono attualmente disponibili solo le prime tre stagioni su quattro che si fregiano, tra l’altro, dei sottotitoli in italiano a cura del nostro Paolo Ferrarini.

Si tratta di una serie antologica poiché i tre protagonisti delle stagioni, ciascuna delle quali è autonoma e racconta una storia a sé, variano, pur essendo in ogni caso accostabili: il loro comune denominatore è un passato caratterizzato da vessazione e violenza psicologica.

Cora Tannetti è una giovane donna sposata e con due figli piccoli, che per colpa dell’integralismo cristiano di sua madre ha vissuto fino all’adolescenza immersa in un clima di rinuncia, colpevolezza e timorata devozione. I traumi subiti e le esperienze vissute la conducono un giorno, senza apparente motivo, ad accoltellare a morte un uomo incontrato in spiaggia.

 

Julian è un tredicenne riservato che vive a Mosswood Grove, un’inquietante comune dalle forti caratteristiche settarie diretta da sua madre, Vera Walker, che guida la collettività nelle operose giornate di “lavoro” (attività ignota agli estranei) e nell’adorazione di un monolite di pietra nascosto in un fienile. Il placido ragazzino, che è stato accuratamente allontanato dalla società esterna alla sua congrega e conduce una vita isolata, parte un giorno in direzione delle cascate del Niagara con Bess e Adam, una coppia di giovani adepti. Durante una sosta a un motel, però, Julian offre a colazione un the avvelenato ai due ragazzi, uccidendoli entrambi tra atroci sofferenze.

Jamie Burns è un gentile professore di storia con un figlio in arrivo, che torna però in contatto con Nick, suo ex compagno di college. Questi ha un pessimo ascendente su di lui e lo trascina in un gioco tossico di subordinazione psicologica, in cui è scomodato perfino il concetto nietzschiano di Übermensch. Jamie, dopo un incidente in auto in cui Nick muore, viene condotto dal suo ricordo ossessivo in una spirale di perdizione e smarrisce, piano piano, ogni cosa: la motivazione al lavoro, la lucidità, l’attaccamento alla vita. Prova ad affrontare i propri demoni ma, offuscato dal ricordo dell’amico, finisce per perdere le forze macchiandosi anche lui, come gli altri due protagonisti, di omicidio.

In tutti i casi, dunque, il passato di coercizione implica delle forti ripercussioni sul presente, comporta ai tre protagonisti delle cicatrici indelebili e li conduce a macchiarsi di crimini violenti. Il trauma, il plagio, la manipolazione della mente fanno sì che ognuno di loro riceva l’etichetta, parzialmente immeritata, di “criminale”.

L’amico in comune di questi tre personaggi è Harry Ambrose (un ottimo Bill Pullman), detective umano e comprensivo in prossimità della pensione, che entra in scena per indagare su ciascuno dei loro casi. Ambrose, nonostante la sua imperfezione e viziosità e quantunque sia a sua volta un “peccatore” reo di scelte in controtendenza alla “morale”, si configura come una sorta di positiva metafora dell’equilibrio e della razionalità della mente: cercando di far luce sulle zone d’ombra dei loro trascorsi, è in grado di prendere le dovute distanze dagli errori dei tre personaggi e di giudicare i fatti con raziocinio, venendo a conoscenza delle reali motivazioni. Il merito dell’uomo è quello di saper andare oltre le apparenze, superando l’immagine corrotta che lo strascico devozionale appiccica a questi “sinner” e concedendo loro il beneficio del dubbio.

The Sinner era stata inizialmente concepita come miniserie tratta dall’omonimo libro di Petra Hammesfahr ma, a seguito del grande successo ottenuto, è stata ampliata con l’aggiunta di stagioni successive alla prima.

Quest’ultima, all’avviso di chi scrive, è la più pregna di significati e la migliore chiarificatrice dell’intento narrativo della scrittrice prima e del regista poi.

La condotta “immorale” di Cora è, secondo la visione distorta della madre, la prima causa della grave malattia da cui è affetta Phoebe, la sua sorellina. A quattro anni, la madre l’accusa di averla prosciugata, in gravidanza, delle sue energie e di non averne lasciate per la sorella, nata dunque inferma. Sin da bambina, insomma, la protagonista cresce accompagnata da un opprimente senso di colpa e un incessante monito alla “rettitudine”, vive tra continui momenti di preghiera condotti sotto lo sguardo severo della madre e la sorveglianza del Gesù Cristo appeso in cucina. Perfino consumare la cioccolata regalata dalla zia attrice (e dunque, «prostituta»), appare un peccato irrimediabile. La dottrina di cui la madre è vettrice plasma la sua visione della vita e le induce un acuto senso di responsabilità rispetto a cose di per sé immodificabili ma la cui colpa le è comunque ricondotta – poco importa, d’altro canto, che il padre sia fedifrago e che Phoebe a stento trattenga un energico istinto sessuale: la causa delle disgrazie famigliari è sempre e solo lei.

Durante la fase dell’adolescenza, la ragazza continua a trasportare il pesante fardello ma compie una serie di esperienze che le fanno valicare il ristretto orizzonte casalingo. Nella difficoltosa fase di distacco e di – apparente – emancipazione dal dogmatismo imposto da sua madre, sperimenta la depressione, l’abuso di droghe, un approccio molto libertino alla sessualità. Al culmine della tensione, per un fatale scherzo del destino, Cora si ritrova in un seminterrato in cui la sorella perde la vita il giorno del suo compleanno, con il coinvolgimento di un amico da poco conosciuto, Frankie. Un ragazzo, peraltro, che è studente in medicina e che incarna dunque i valori della scienza, in antitesi ai valori della cecità religiosa ai quali le sorelle Tannetti sono state educate.

La vita di Cora prosegue con una rimozione del trauma e la conduce a una nuova versione di sé, quella della madre di famiglia, che sembra inizialmente appagarla. Si tratta in realtà di una calma apparente, che di fronte al trigger dell’incontro casuale con Frankie, un giorno al mare, la fa esplodere e le fa inferire sette coltellate (un richiamo ai vizi capitali?) al ragazzo, che muore.

The Sinner ha il merito di essere una serie che più che sul “come” è avvenuto un delitto, induce lo spettatore a indagare sul “perché” si sia verificato, e che conduce una critica pungente alla fede repressiva e alla sua capacità violenta di scatenare l’orrore nell’animo umano.

Cora, Julian e Jamie riportano dai traumi una forte insicurezza che si acuisce nel momento in cui viene loro a mancare la gabbia di rapporti sociali che li ha sorretti, ma anche detenuti, per parte della vita. La costrizione sperimentata si concretizza in un controllo estremo che, una volta venuto meno ed elaborato, si tramuta in una ferita difficile da rimarginare.

Le azioni dei tre personaggi sono però solamente le cartine al tornasole degli squarci che hanno ricevuto, e rappresentano il risultato di una repressione patita ingiustamente. Da innocenti quali sono – o meglio, erano – anziché della salvezza prospettata da un’entità superiore e perfetta avrebbero solo bisogno di liberarsi dal peso di un passato doloroso. A proteggerli non trovano alcun essere divino, pietra magica, oltreuomo ma un qualunque antieroe, comprensivo e banalmente umano, che li sa ascoltare e comprendere. Che è semplicemente in grado di sospendere il giudizio e di ragionare.

Micaela Grosso

 

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