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Tasse, morale e politica

Secondo studi della CGIA di Mestre la pressione fiscale del nostro paese dovrebbe raggiungere nel 2013 il 44,2% del Pil.

E’ un livello mai toccato in passato, 1,6 punti percentuali in più rispetto a 2 anni fa, 12,8 in più rispetto al 1980. A fronte di questo dato non si osserva un miglioramento dei servizi e, meno che mai, delle condizioni occupazionali, visto che il tasso di disoccupazione è aumentato, e di molto. Secondo la Commissione Europea, nel 2014 sarà tagliato il traguardo negativo del 12% circa di persone senza lavoro. Tradotto in numeri reali, ciò vuol dire 3 milioni di disoccupati.

In realtà, per quanto lo Stato possa aumentare la pressione fiscale o fare tagli nelle voci di spesa, non creando ricchezza, il debito aumenta inevitabilmente. E il punto è proprio che non si crea ricchezza.

E’ un cane che si morde la coda: più aumenta la pressione fiscale, più diminuisce la domanda interna, più aumenta la povertà relativa e reale. Altro che creazione di ricchezza! Ciononostante, si cercano di convincere gli Italiani della necessità morale di una pressione fiscale così opprimente. “Ce lo chiede l’Europa!”; “Dobbiamo rispettare gli impegni con l’Europa”... Del resto, abbiamo un problema di debito pubblico eccessivo e un disavanzo nei conti dello Stato che si fa fatica a contenere entro il 3 per cento del prodotto interno lordo, come stabilito a Maastricht.

Ma la questione delle tasse rivela, come tutte le questioni etico-politiche, una complessità non risolvibile in termini di slogan.

Il punto chiave, allora, non è perché, ma per cosa si pagano le tasse, giacché è indubbio che devono essere pagate. I servizi comuni non potrebbero esistere, se tutti non si impegnassero a pagare responsabilmente le tasse, in relazioni chiaramente ai propri redditi. Ma, fatto salvo il dovere del cittadino di pagare le tasse, è diritto del cittadino sapere per cosa vengano pagate. In altri termini, non basta invocare il termine Europa perché s’individui in esso il bene comune, e, quindi, la legittimità e la moralità dell’IMU, della IUC etc.. Chiediamo ci sia lasciato il beneficio di chiedere fino a che punto quest’Europa risponde al nostro bene comune.

In altri termini, un referundum pro o contro l’euro sarebbe, democraticamente parlando, una questione sostanziale. Perché più che con un’idea di Europa ci confrontiamo con un’imposizione reale e con una sperequazione palese, laddove si rendono evidenti differenze di trattamenti fra i paesi membri, a seconda che pesino di più o meno negli equilibri europei. Il rischio è, in altri termini, che qui si voglia far digerire la subalternità del nostro Paese verso interessi di altri paesi dominanti, verso rapporti di forza economici e politici consolidati o in via di consolidamento, come se questa fosse una necessità storica o la giusta pena per un paese di crapuloni poco accorti, antropologicamente inferiori.

Ma c’è dell’altro, perché porre la questione delle tasse richiamando esclusivamente il dovere dei cittadini di pagarle significa dire solo una parte della verità. Occorre richiamare anche il dovere di una loro gestione equa e giusta.

In realtà, da un punto di vista etico, esiste un discrimine fra giusto contributo al bene comune e sopruso perpetrato ai danni della comunità.

C’è da chiedersi allora se molte delle risorse rastrellate dal fisco vengano utilizzate in modo proprio e non disperse per alimentare un apparato politico e burocratico costoso e dilapidatore delle risorse pubbliche. Né questa politica, che moraleggia imponendo sacrifici fiscali in nome di un’etica, per lo meno, discutibile, mette mai in discussione le proprie logiche di potere, che soffocano valori fondamentali, come la tutela del merito, la certezza della pena, il rispetto delle leggi, la trasparenza nei concorsi pubblici. Si solleva il problema etico dell’evasione fiscale, ma non si pone un problema etico relativamente al modo di gestire il potere, che avviene attraverso circuiti viziosi. Contraendo in maniera strutturale la spesa pubblica improduttiva possiamo ridurre anche le tasse: ad esempio, semplificando, dimagrendo la “macchina” pubblica locale: regioni, province, comuni e enti inutili. Non ci sono, infatti, solo gli eletti in Parlamento e negli enti locali. Basti richiamare che, secondo uno studio della Uil, coloro che traggono una fonte durevole di guadagno da ruoli legati all'amministrazione pubblica sono in 1.128.722. E i costi, diretti e indiretti, ammontano a 23,9 miliardi.

In conclusione, un’intera classe politica chiusa nel Palazzo dà ormai l’impressione di rimanere distante dalle esigenze reali e quotidiane del Paese. Dà ancora l’impressione di intendere l’interesse pubblico come quello che coincide con le parti, le cooperative, i sindacati, le varie forme associazionistiche, che sono collaterali con le proprie rappresentanze al potere. 

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