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Taliban, il marchio su Kunduz

L’effetto domino, con cui oltre ai distretti, anche città di grandi e medie dimensioni diventano conquista talebana, raggiunge Kunduz. In attesa del ritiro dell’11 settembre, che conferma la sua doppia tragicità per l’orizzonte statunitense.

Collocata a settentrione, come la maestosa Mazar-i Sharif, il cui collegamento è da mesi controllato dai combattenti coranici, fu da loro insidiata già nel 2015 e 2016. Alla conquista delle scorse ore, dopo giornate d’assedio, è seguita una vendetta rivolta ad alcuni luoghi simbolo finiti devastati o dati alle fiamme. Il quartier generale della polizia, l’edificio dell’odiata Intelligence, il compound della disprezzata Commissione elettorale. Davanti alle prigioni, aperte dai taliban per liberare detenuti propri e comuni, s’è formata una folla. Qualcuno uscendo bacia la mano ai liberatori. Questo mostra Al Jazeera sul luogo coi propri operatori che hanno anche filmato fasi dello scambio di colpi di armi leggere fra ‘liberatori e difensori’. Se la telecamera si posa sulla gente, fra le donne e i bambini accovacciati su cigli di strade polverose, mentre qualcuno si presta a sventolare bandiere, stavolta bianche, con slogan inneggianti alla Shar’ia, la condizione è di sbandamento. I cittadini non parteggiano, subiscono. Ora come subivano prima. Nel 1996, quando i taliban ponevano fine a quattro anni di sanguinamento sociale, ci fu chi credette alla loro promessa di porre freno al caos. Il caos è semplicemente proseguito, con la fanatica violenza degli studenti coranici, e con la promessa di farli dimenticare operata da quell’occupazione che ora si ritira e dai propri collaboratori. Vent’anni sommati ai precedenti venti, fanno tre generazioni di donne e uomini - ex ragazze, ex ragazzi - distrutti da guerre, faide, persecuzioni, oppressioni.

L’aggiunta di ruberie, corruzione, sprechi ha disilluso tutti, anche chi s’è schierato, per sopravvivere, coi governi fantoccio, coi talebani che dicono di cambiare, senza convincere nessuno. Tantomeno tanti afghani. Che, però, paiono oltreché inorriditi, irrigiditi, dal tempo, dall’altrui cinismo che stimola il proprio. Dalla disillusione d’un sistema impossibilitato al cambiamento. E abitanti più poveri, privi d’ogni risorsa e incapaci di spostarsi da una provincia all’altra, fra l’altro senza motivo poiché ovunque il quadro si somiglia con combattenti di fede che conquistano ovunque spazio e potere. Così gli afghani restano imbambolati presso i miseri tuguri, non capendo cosa fare, non potendo fare. A Sar-e Pul, provincia centro-nord, sventolano stendardi talebani, stessa situazione addirittura a Sheberghan, nel Jawzjan, culla di Rashid Dostum, fuggito anch’egli e riparato a Kabul. Gli anni pesano, il generale per tutte le stagioni, filo-russo e gran Signore di molte guerre, quindi vicepresidente e negli ultimi tempi boss di bassissima lega, non ha forza e forze per delimitare un proprio territorio. O invece temporeggia, pensando a riciclarsi per un futuro che arriva. Proseguono i combattimenti a Lashkar Gah, intensa guerriglia a Nimroz. Cosa fa il fantasma d’un palcoscenico a brandelli che è il governo Ghani? Richiede, e forse ottiene, che prima di volar via i bombardieri Usa - B52 e AC 130 - sgancino ordigni nei territori occupati dai talebani. Ennesima ‘operazione Stranamore’ senza senso né speranza, tanto per uccidere un po’. Ogni bomba cadrà anche su quelle madri disperate e pietrificate al ciglio delle strade, che cambieranno stato: si carbonizzeranno. Come accadeva sei anni or sono a quarantadue fra medici, infermieri e ricoverati dell’ospedale di Médecins sans Frontières di Kunduz, sottoposto per oltre un’ora alle ‘attenzioni’ dei bombardieri Nato. Una strage voluta, un ‘danno collaterale’ coscientemente assassino per il quale nessuno ha pagato. Forse anche per questo i talebani tornano a Kunduz e qualcuno inopinatamente gli bacia le mani…

Enrico Campofreda

Questo articolo è stato pubblicato qui

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