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Stati Uniti, il tetto finto e il deficit vero

Tra rivoluzione ambientale-tecnologica, guerra in Ucraina e confronto con la Cina, il deficit americano non rientra e complica la vita alla Fed (e non solo)

 

Negli Stati Uniti sono in corso le trattative tra Joe Biden e i Repubblicani per giungere a innalzare il tetto del debito federale. Il meccanismo è piuttosto cervellotico perché il tetto è fissato indipendentemente dal deficit che quindi, a intervalli regolari, finisce a “sbatterci contro” e richiedere un innalzamento. La norma esiste dal 1917, il suo importo iniziale era pari a 11,5 miliardi di dollari, è stato alzato da ogni presidente a partire da Herbert Hoover per un totale di oltre 100 volte e oggi ammonta a 31.400 miliardi di dollari.

UN TETTO SENZA FONDAMENTA

Una curiosità: quella che oggi è vista come una camicia di forza nacque in realtà come mezzo per consentire più flessibilità alle finanze pubbliche statunitensi, impegnate nello sforzo bellico. Prima di quella data, il Congresso doveva autorizzare ogni singola emissione di debito.

Il tetto è del tutto avulso, ad esempio, da andamento demografico e inflazione. È, semplicemente, una grandezza nominale che a intervalli regolari viene saturata dalla crescita dello stock di indebitamento e richiede pertanto una nuova autorizzazione da parte dei due rami del Congresso. I problemi sorgono, come intuibile, quando quest’ultima e la Casa Bianca sono di colore politico differente.

Lo scorso 26 aprile la Camera, a maggioranza repubblicana, ha approvato un disegno di legge che innalza il tetto di 1.500 miliardi di dollari a patto di riportare la spesa al livello nominale del 2022 e in seguito consentirne una crescita non superiore all’1%. Per diventare operativo, questo disegno di legge deve essere approvato dal Senato, che è a maggioranza Democratica e che mai accetterà una simile tagliola.

Il tetto è stato raggiunto lo scorso gennaio, momento a partire dal quale il governo federale non può più accendere nuovo debito senza autorizzazione ma deve usare le disponibilità di tesoreria di cui dispone. Alla fine di aprile, tali disponibilità erano pari a 316 miliardi di dollari. C’è una complicazione aggiuntiva: la raccolta fiscale quest’anno è stata molto inferiore alle attese e di conseguenza pare che il cosiddetto giorno X, quello in cui il saldo di tesoreria sarà prosciugato, sia più vicino del previsto. Si parla addirittura di inizio giugno. Per spingere in là quella data, in assenza di innalzamento del tetto, il Tesoro può rinviare alcune spese e mettere in libertà i pubblici dipendenti. Ma, se ciò non bastasse, c’è il rischio che il servizio del debito di prossima scadenza possa slittare, determinando quello che le agenzie di rating definiscono default selettivo.

Che avrebbe pesanti conseguenze sui mercati e sulla reputazione degli Stati Uniti, visto che il debito americano è considerato il safe asset del pianeta. Nel 2011 l’accordo arrivò il giorno stesso in cui i soldi erano attesi finire. Mentre Repubblicani e Democratici (guidati da Barack Obama) si accapigliavano sul mix di aumenti di entrate e tagli di spesa, l’agenzia di rating Standard & Poor’s tolse la tripla A agli Stati Uniti, per la prima volta nella storia.

UN PERICOLOSO “GIOCO DEI POLLI”

Che fare oggi, quindi? Intanto, il contesto è differente dal 2011, nel senso che è più critico: la divisione tra Democratici e Repubblicani si è fortemente inasprita; il rapporto debito-Pil si è alzato di oltre trenta punti percentuali e oggi è prossimo al 100%; i tassi d’interesse, nominali e reali, sono in forte aumento ed è in corso una stretta monetaria per contrastare una perturbazione inflazionistica molto insidiosa e sfuggita di mano.

Anche a questo giro, sono tornati i soliti suggerimenti: creare una “monetona” di platino da mille miliardi di dollari (che, attenzione, non deve essere fatta esclusivamente di platino) da conferire alla Fed per avere anticipazioni; oppure emettere titoli del Tesoro con cedola nettamente superiore a quella di mercato, per aumentare le entrate mantenendo invariato il valore facciale del debito; o ancora, invocare alcuni articoli della Costituzione e “interpretarli” per aggirare il tetto.

Quasi nessuno crede che gli Stati Uniti finiranno in default ma, data la polarizzazione, l’incidente potrebbe essere dietro l’angolo. I Democratici accusano i Repubblicani di recitare lo stesso copione: fare deficit pesantemente quando controllano Casa Bianca e Congresso, e diventare conservatori fiscali quando sono all’opposizione. Inoltre, come abbiamo visto, il tetto è una costruzione del tutto slegata dalla effettiva dinamica della spesa pubblica e delle sue coperture.

Ma c’è un dato che viene segnalato anche da osservatori più o meno neutrali: il deterioramento dei conti pubblici degli Stati Uniti è ormai manifesto. Quest’anno il rapporto deficit-Pil salirà dal 5,4% al 5,5%, e nel 2024 è atteso al 6%. Poiché l’economia è al pieno impiego, come testimoniato dall’andamento di occupazione e disoccupazione, e dato che la Federal Reserve sta stringendo la politica monetaria, questo deficit è un problema e un rischio. Perché rappresenta un impulso espansivo a contrasto dell’azione della Fed, che potrebbe essere costretta a proseguire oltre il punto in cui le crepe nell’edificio della stabilità finanziaria si trasformano in crolli. Inoltre, se un paese genera deficit in condizioni di pieno impiego, che accadrà quando entrerà in recessione?

TRA GUERRE E RIVOLUZIONI, IL DEFICIT LIEVITA

Servirebbe (serviva) una stretta fiscale, quindi, ma Biden è impegnato con i sussidi della transizione ecologica, con la guerra in Ucraina e con il confronto con la Cina. E tra i Democratici non c’è appetito politico per un ulteriore aumento di imposte. Riguardo a quest’ultime, il forte calo di gettito atteso dalla dichiarazione dei redditi di aprile pare sia da mettere in relazione anche con gli effetti del crollo dei mercati finanziari, che hanno falcidiato le plusvalenze e fatto emergere minusvalenze.

Quindi, anche se si dovesse trovare un accordo dell’ultimora o calciare la lattina sul tetto per qualche mese di tempi supplementari, la situazione dei conti pubblici statunitensi resta problematica e dovrà essere affrontata, prima o poi. E con davanti un anno e mezzo di campagna elettorale, è facile immaginare il tipo di “dibattito” che ne deriverà. Con ricadute planetarie, visto che i Repubblicani stanno iniziando a manifestare insofferenza per il costo della guerra in Ucraina.

Ma, come detto, nulla garantisce che col ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, o con l’arrivo di un suo replicante meno instabile ma sempre plasmato sui canoni del MAGA (Make America Great Again), si giungerebbe al riequilibrio dei conti pubblici. Anzi, forse andrebbe esattamente all’opposto, visto che i Repubblicani non disdegnano affatto i sussidi e con tutta probabilità, se posti di fronte alla scelta tra deficit “di guerra” verso Pechino e morigeratezza fiscale, è improbabile avrebbero dubbi.

Foto di Adam Nir su Unsplash

 

Questo articolo è stato pubblicato qui

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