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Siamo proprio sicuri che la sensazione di pericolo favorisca la fede?

“Non ci sono atei in trincea” è un’affermazione che circola molto, soprattutto negli Stati Uniti. 

Ma è un’affermazione falsa. In ogni guerra che sia stata combattuta, i disertori sono stati numerosi e la propaganda “disfattista” è stata regolarmente vietata, senza eccezione alcuna per i conflitti scatenati in nome di un dio con la promessa della vita eterna. Anche se siamo molto reticenti ad ammetterlo, noi tutti, molto probabilmente, discendiamo dai primi umani che, di fronte alle belve affamate della savana, preferirono scappare, anziché invocare qualche spirito salvatore. Siamo proprio sicuri che la sensazione di pericolo favorisca la fede?

È vero che ogni civiltà letterata ci ha lasciato tante testimonianze di suppliche rivolte a qualche entità sovrannaturale. Ma ce ne ha lasciate anche altre, che per contro ci attestano che le preghiere non sono state sempre esaudite. Le catastrofi non fanno altro che amplificare questo duplice fenomeno. Plinio il Giovane, testimone diretto dell’eruzione del Vesuvio del 79, ci rammenta ancora oggi che “molti sollevavano le mani agli dèi, più numerosi pensavano che ormai non ci fosse alcun dio da nessuna parte e che quella notte fosse eterna e l’ultima per l’universo”.

A ben vedere, la storia della secolarizzazione occidentale è contrassegnata da tappe simili. Il disastroso terremoto di Lisbona del 1755 contribuì non soltanto alla nascita della sismologia (vi si impegnò pure un certo Immanuel Kant) ma aprì anche la strada all’illuminismo radicale, scatenando discussioni a non finire su quanto un dio onnipotente, onnisciente e infinitamente giusto sia compatibile con la realtà indiscutibile della sofferenza e della morte. La ‘teodicea’, ironia della sorte, era una parola inventata soltanto mezzo secolo prima dal filosofo/teologo tedesco Gottfried Wilhelm Leibniz, che pensava che “viviamo nel migliore dei mondi possibili”. Il cataclisma portoghese mandò però in soffittala sua inverosimile tesi, sbeffeggiata in lungo e in largo da Voltaire nel suo Candido o l’ottimismo.

La storia si ripeté due secoli più tardi con la shoah. Come aveva potuto, Dio, permettere gli orrori di Auschwitz? Gli ebrei cercano da allora una risposta a una domanda così terribile per chi crede, al punto che è nata una specifica teologia dell’olocausto. Ma altri ebrei (Primo Levi sopra tutti) trassero da quell’evento una conclusione molto più semplice: Dio non c’è. In ogni caso, la discussione sulla teodicea, nel mondo intellettuale, andò ben al di là delle comunità ebraiche. I campioni della fede, costretti sulla difensiva, puntarono sulla differenza più evidente rispetto a Lisbona: il carnefice non poteva essere Dio, non era la natura, erano invece esseri umani. Nacque allora la leggenda del nazismo ateo.

L’11 settembre 2001 cominciò a crollare anche questa giustificazione. Quasi tremila morti e oltre seimila feriti, ma i carnefici delle torri gemelle erano esseri umani che avevano esplicitamente agito in nome del loro dio. Quattro giorni dopo Richard Dawkins pubblicò sul sito del Guardian una riflessione sull’accaduto: Missili deviati dalla religione. Internet diede il propellente necessario alla sua diffusione planetaria, e nacque il new atheism. Dal 2001, coloro che non appartengono ad alcuna religione sono quasi raddoppiati, negli Usa, diventando il gruppo “religioso” più numeroso. E sono in ulteriore crescita anche altrove.

Tuttavia, anche il terrorismo religioso ha trovato i suoi negazionisti: “sono terroristi, perciò non possono essere autentici credenti”. È un’opinione fatta propria non soltanto dai teologi, ma anche dal papa, da Barack Obama e da innumerevoli altre autorità religiose e politiche. Quanto accade in questi giorni rischia però di mandare in crisi anche quest’ultima giustificazione.

Perché, pur di fermare il coronavirus, le autorità religiose e politiche hanno inizialmente scherzato col fuoco, giocando la carta del soprannaturale. Gli esiti sono stati quantomeno disastrosi. L’India si è affidata all’omeopatia, Trump ha proclamato una giornata nazionale di preghiera, l’arcivescovo di Milano ha supplicato la statua della Madonna e il papa ha chiesto a Dio di far finire la pandemia. La pandemia, indifferente a ogni implorazione, nei giorni seguenti ha tuttavia non solo proseguito, ma addirittura parecchio accelerato la sua virulenza. Anche in Iran: dove autorità politica e religiosa coincidono e la situazione reale potrebbe essere forse la peggiore del pianeta, con tanto di sepolture di massa.

L’umanità dispone dunque di validissime prove per dubitare che le religioni siano un’arma utile nella guerra al virus. E le ha non soltanto valutando i loro comandanti in capo, ma anche gli ufficiali e le truppe. Non abbiamo che l’imbarazzo della scelta delle notizie più imbarazzanti: dal teologo iraniano che ha dichiarato il virus “un atto di Allah” (ed è poi rimasto contagiato) alle leccate ai santuari nella città santa di Qom. Dagli induisti che hanno organizzato un ritrovo per bere urina di vacca ai focolai sviluppatisi intorno a gruppi religiosi in Francia, in Corea del Sud, in Campania e in Arkansas. Dagli enormi raduni degli ebrei ortodossi a New York alle insensate adunate oceaniche per chiedere la fine dell’epidemia in Bangladesh e in Malaysia. Dalla chiesa fondamentalista brasiliana che, per continuare a riunirsi in massa, è ricorsa in tribunale (vincendo!), alla contaminazione di interi istituti religiosi nella provincia di Roma (dove le suore, da sole, rappresentano quasi il 10% dei contagiati). È soltanto un breve elenco, limitato agli eventi più significativi resi noti finora. Quando leggerete queste righe sarà senz’altro emersa qualche ulteriore prodezza. Qualcuno ride, in tanti si incazzano. Perché stanno mettendo a rischio anche la nostra, di salute.

Eppure, lo sapevamo già tutti. Prima che fossero scoperti i virus, le principali fonti di contagio erano proprio le processioni contro le periodiche pestilenze. Ancora lo scorso anno, epidemie di morbillo erano scoppiate all’interno di una setta giapponese, di una comunità religiosa olandese e dei “soliti” ebrei ortodossi di New York. Ma fino a un mese fa erano informazioni che circolavano localmente: ora sono notizie (è il caso di dirlo) virali, che hanno portato il Wall Street Journal a chiedersi se la religione contribuisce alla propagazione del coronavirus. E la risposta è inevitabilmente “sì”.

L’effetto più banale (e allo stesso tempo più incomprensibile, quantomeno per noi) è che l’epidemia miete un gran numero di vittime soprattutto tra i fedeli più convinti. Il 13 marzo il papa ha tuonato che “le misure drastiche non sempre sono buone” e ha imposto un imbarazzante dietrofront a tante diocesi, a cominciare dalla sua, tutte costrette a riaprire le chiese (con l’inqualificabile connivenza delle istituzioni). Come se non bastasse, Francesco ha preteso che “il popolo di Dio si senta accompagnato dai pastori e dal conforto della Parola di Dio, dei sacramenti e della preghiera”, e pazienza per gli appelli a restare a casa lanciati fino allo sfinimento da tutte le autorità sanitarie. I preti sono stati dunque mandati a combattere in prima linea -e ora gli organi di stampa cattolici onorano commossi i caduti. Secondo il quotidiano dei vescovi Avvenire sono già 67 i sacerdoti morti col coronavirus: 22 nella sola provincia di Bergamo, dove la diocesi ha chiesto e ottenuto che siano medici e infermieri a impartire le benedizioni a pazienti e morenti.Così facendo, hanno però anche sparso a piene mani la sensazione che i comportamenti zelanti siano dissennati, e che sia quindi quantomai opportuno prenderne ancor più le distanze. Non solo fisicamente.

Sui mass media italiani non troverete però alcuna osservazione critica, persino sui casi più evidenti: sono ormai appiattiti nella rutinaria celebrazione del pontefice e della religione. Festeggiano i quattro milioni di italiani che assistono al rosario in tv e occultano gli almeno otto che hanno cominciato a saltare fisicamente l’evento domenicale senza seguirlo sul piccolo schermo (ma tranquilli, ora ci sono anche le preghiere trasmesse dai tetti con altoparlanti a palla, e da oggi Rai Uno vi “offre” in diretta la messa papale quotidiana). Il Corriere della Sera ha sì dedicato due pagine al “contagio che sfida la fede”, limitandosi però ad accogliere le risposte di tre teologi. Nonostante la quasi totalitaria autocensura degli organi di informazione, condita persino da fake news apologetiche, il mondo continua però a cambiare. Anzi: cambia anche grazie a loro. Senza che se ne avvedano.

Giornali e tv, se non altro, sono infatti consapevoli che i loro utenti non vogliono sorbirsi articoli e servizi sulle preghiere, che chi vuole può già trovare (con un taglio molto più accurato) su Avvenire e Tv2000. Lettori e telespettatori vogliono informazione concreta, vogliono proposte argomentate sulle scelte da prendere, vogliono previsioni attendibili sul futuro. Vogliono scienza. E i mass media gliela stanno dando abbondantemente, come mai prima d’ora. I virologi sono diventati i nuovi guru, i medici sono descritti come santi, un farmaco e un vaccino contro il coronavirus sono ormai attesi come la manna dal cielo.

Diverse star hanno deciso di cantare una canzone dalle loro quarantene, e non è un inno religioso. Questo percepibile cambiamento sarà un ulteriore veicolo di secolarizzazione. E lo sarà anche a causa delle religioni stesse che, consce del fallimento dei loro “rimedi” tradizionali, sperano che medicina e scienza tolgano loro le castagne dal fuoco. Non sentiamo più parlare di “castigo di dio”, se non da esponenti residuali. Leggiamo invece che la guida suprema iraniana, Ali Khamenei, ha lodato apertamente il personale ospedaliero. Sulla prima pagina di Avvenire, giorni fa, campeggiava il titolo “Armati di scienza e fede”. E fa sorridere il rinvio, causa coronavirus, di un raduno di noti predicatori, sicuri fino al giorno prima che la fede abbia il potere di guarire. Oggi, chissà.

Per colpa delle religioni ne usciremo più tardi. Non sappiamo quando, come e in quanti ne usciremo, ma ne usciremo comunque. E troveremo un mondo diverso. Neppure questa volta sarà la fine delle fede, perché (anche se qualcuno non se ne fa una ragione) la fede è un fenomeno che ha tutte le credenziali per durare ancora millenni. I più fanatici diranno che il virus è stato inventato da Satana o dagli atei (in fondo è apparso a Wuhan, in Cina). Il bias di conferma farà pensare ai paurosi bisognosi di rassicurazioni che sono state le preghiere a salvarli – e se qualcuno è morto, beh, forse ha fatto qualcosa che non conosciamo per meritarselo. Su tanti altri continueranno a far presa il desiderio di conformismo e l’attaccamento alla tradizione. Ma un altro pezzo della corazza che riveste tanti esseri umani si sarà definitivamente staccato.

Soprattutto, avremo capito che le società del terzo millennio non devono basarsi su credenze indimostrate, e che la scienza è la miglior risorsa di cui disponiamo per vincere le sfide che ci aspettano appena fuori dall’uscio di casa. I problemi reali richiedono soluzioni esclusivamente umane. E un’umanità preparata, aperta a costruire insieme (comunque la si pensi) un futuro migliore del mondo attuale. E incomparabilmente migliore del mondo in cui viveva il teologo Leibniz.

Raffaele Carcano

 

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