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Sfruttamento del lavoro: il Qatar si rifà l’immagine coi mondiali di atletica

Nei paesi del Golfo siamo di fronte a un nuovo caso di “sportwashing” (qui, il significato del termine): i campionati mondiali di atletica iniziati ieri in Qatar.

 

Fino al 6 ottobre, il paese del Golfo cercherà di non mostrare, ai miliardi di telespettatori che assisteranno agli eventi sportivi, le condizioni dei circa due milioni di lavoratori migranti in larga parte impegnati nella costruzione degli impianti e delle infrastrutture per i grandi eventi sportivi. Primo tra tutti, i mondiali di calcio del 2022.

Molte gare si svolgeranno a Doha, nello stadio Khalifa. Precedenti ricerche di Amnesty International hanno rivelato il sistematico sfruttamento dei lavoratori impegnati nella costruzione dell’impianto, condizione facilitata dal sistema dello sponsor (“kafala”) che vincola il lavoratore al suo datore di lavoro per cinque anni e che impedisce a determinati gruppi di lavoratori, come quelli del settore delle pulizie, di lasciare il paese senza il permesso del datore di lavoro.

Appena pochi giorni fa l’organizzazione per i diritti umani ha pubblicato un rapporto in cui denuncia che centinaia di lavoratori migranti sono ancora in attesa delle paghe dovute e dei risarcimenti.

Il rapporto rivela che, dal marzo 2018, centinaia di migranti che lavoravano presso tre imprese di costruzioni e di pulizie hanno rinunciato a ottenere giustizia e sono tornati nei rispettivi paesi di origine senza un euro in tasca.

Questo è avvenuto nonostante le autorità del Qatar, nell’ambito di una serie di riforme promesse in vista dei mondiali di calcio del 2022, abbiano istituito nuovi comitati che avrebbero dovuto risolvere rapidamente le controversie sul lavoro.

Nel 2018 questi comitati hanno ricevuto oltre 6000 reclami ma, alla fine dell’anno, nessuno era stato risolto.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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