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Rojava, perché mai parlare di pace

Ore di tregua, centoventi. Poche, pochissime, fragili e parzialmente rotte sul confine turco-siriano dove alle cannonate dell’esercito turco con ulteriori vittime civili, le Unità di protezione del popolo, che avrebbero annunciato il ritiro dalla zona del Rojava investita dall’offensiva di Ankara, rispondono con le armi leggere del loro arsenale. 

Un confronto impari, soggetto non solo al diverso impiego della forza, ma non proporzionato all’intero piano di Erdoğan che punta a soffocare l’utopia del territorio gestito da uomini e donne delle Ypg e delle Ypj con la rappresentanza politica del Partito dell’Unione democratica. Il progetto di svuotare per una trentina di chilometri di profondità un’area lunga oltre quattrocento chilometri, praticamente da Cizre a Kobanê, e insediarvi i profughi arabo-siriani è l’irrinunciabile scopo che il presidente turco insegue da tempo. Ora, grazie agli egoismi internazionali, riuscirà ad avere via libera, come già l’ha avuta per i blitz armati dai nomi epici: ‘Scudo dell’Eufrate’ (agosto 2016), ‘Ramo d’ulivo’ (febbraio 2018), fino all’odierna ‘Fonte di pace’. Sanguinarie beffe realizzate col consenso della comunità mondiale e presunte “ragionevolezze diplomatiche”.

Il ridisegno della Siria, devastata da otto anni di guerra criminale, passa alla cancellazione del Rojava col pilatesco abbandono statunitense, il ruolo centrale d’una Russia moderatrice del vicino Medio Oriente secondo i propri interessi, il cinico lasciar correre di Asad cui i kurdi, in condizione di emergenza e disperazione, chiedono protezione senza riceverla. Poi c’è l’Occidente democratico che sotto la sigla dell’Unione Europea, tanto parla e sentenzia, su invasioni e diritti civili sempre con una bilancia squilibrata secondo i voleri di Pentagono e Nato. Poiché, se giustamente Parlamenti nazionali e quello di Bruxelles tuonano contro l’azione di forza (comunque non contrastata) dell’esercito turco, un proprio alleato, quasi nulla si fa per strazianti guerre locali come quella in Yemen. Proprio la discussa monarchia di Riyad è posta come termine di paragone da alcuni osservatori e Centri di Studi politici. L’efficiente rete televisiva Al Jazeera ha interpellato la struttura presieduta da Sinan Ülgen che, tirando l’acqua al mulino della nazione turca (il Centro lavora a Istanbul), pone in risalto il doppio binario di alcuni grandi Paesi europei.

Questi analisti notano che nel quadriennio 2014-2018 le potenze regionali turca e saudita con governi, diciamo borderline sul fronte repressivo, la prima rivolta prettamente all’interno ma, come vediamo, sempre più impegnata oltre confine, la seconda sul doppio terreno interno ed esterno, ricevono da nazioni europee (Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia, Spagna) rispettivamente 1.7 e 3.9 miliardi di dollari di armamenti importati. Alla fine i conti armati di Ankara salgono a 3.4 miliardi, quelli di Riyad risultano oltre quattro volte superiori: 16.9 miliardi, di cui 11.5 miliardi di provenienza statunitense. E’ anche vero che da tempo la Turchia ormai fa da sé, producendo il 70% del proprio materiale bellico. Certo non si tratta di armi complesse e sofisticate come i sistemi missilistici difensivi-offensivi (tipo S-400 russi) che hanno fatto avvicinare Ankara a Mosca fra la stizza statunitense e i timori della Nato. Fra l’altro nell’ultimo quadriennio l’esportazione turca di armi ha superato il 170%, destinazione Emirati Arabi, Turkmenistan, Arabia Saudita stessa. A conferma che l’industria bellica è un settore trainante, ovunque, tecnologia e geostrategie procedano a braccetto con l’ondivago consenso delle democrazie parlamentari.

Enrico Campofreda

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