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Rileggendo "Il pianeta delle scimmie"

Un libro verso il quale non posso che provare un sentimento di gratitudine che, pure a distanza di molto tempo, ancora mi emoziona profondamente è senza dubbio “Il pianeta delle scimmie” firmato da un ispiratissimo Pierre Boulle.

Lo ho riletto nella traduzione di Luciano Tibiletti.

Nato ad Avignone nel 1912, questo geniale scrittore si laureò in Ingegneria a Parigi per poi trasferirsi in Malesia nel 1936. Qui trovò lavoro in una piantagione di caucciù.

Chiamato alle armi in Indocina allo scoppio del secondo conflitto bellico, passò alle forze della Resistenza combattendo in Birmania e Cina contro gli invasori giapponesi.

Nel 1944 fu fatto prigioniero. Riuscì però a fuggire e fare ritorno in Patria.

Come romanziere, divenne famoso con “Il ponte sul fiume Kwai”.

Nell’opera della quale ci stiamo occupando sondò il terreno della fantascienza, dando evidenti prove della capacità di elaborare trame oggettivamente capaci di lasciare il lettore a bocca aperta.

La trama è nota ai più, anche grazie alla fortunata trasposizione cinematografica: quando una coppia di navigatori interplanetari (come non restare subito affascinati?) trova una bottiglia alla deriva nello spazio scopre che nella pancia della medesima dorme un manoscritto (un espediente che ricorre in letteratura) il quale reca con sé la narrazione-testimonianza delle tormentate vicende di alcuni uomini giunti su un pianeta del sistema di Betelgeuse, subito ribattezzato Soror per la somiglianza al nostro. Una terra 2.0 diremmo oggi. A governarlo sono però… scimpanzè e gorilla. Un rovesciamento di prospettiva di indiscutibile efficacia.

A firmare la stupefacente missiva è tale Ulisse Merou, giornalista, ma soprattutto viaggiatore dello spazio. Già: Ulisse, perché un personaggio del genere doveva necessariamente chiamarsi così, dato che riuscirà a “tornare a casa” solo dopo una serie di mirabolanti avventure, prima del colpo di scena finale, vera e propria ciliegina su una torta/libro molto sostanziosa.

Non mi soffermerò su trama e singoli personaggi, perché questa è una di quelle opere delle quali non è opportuno svelare troppo. Ciò è doveroso, per non privare i lettori del gusto della scoperta di una sorta di universo parallelo in cui è bene perdersi dolcemente. Dirò solo che è una di quelle esperienze/condivisioni del possibile in forma di parola che tutti dovrebbero sperimentare.

Ciascuno ricorderà, come capita a me a distanza di 20 anni, dove si trovava mentre leggeva per la prima volta “Il pianeta delle scimmie”. Questo per la capacità, disarmante, di Boulle di prendere quasi di peso il lettore e precipitarlo in una dimensione in perfetto equilibrio tra sogno e costanti spiegazioni scientifiche (qui torna utile allo scrittore lo studio dell’Ingegneria).

La lezione da apprendere, al di là della sensibilità estrema palesata nella caratterizzazione psicologica dei personaggi chiave della vicenda (es. la bella Nova priva di una coscienza umana o l’empatica Kira, coi suoi commoventi rossori) è che quando si progetta un organismo letterario – cioè un mondo virtuale che vivrà autonomamente negli anni, raccontando cose sempre misteriosamente nuove – non bisogna porsi confini né di spazio né d’inventiva. Non bisogna porre limiti alla provvidenza. Perché se è vero che in letteratura tutto diventa magicamente possibile è anche vero che ogni magia la puoi toccare con mano, se solo ti lasci andare. E allora i personaggi di questa strabiliante storia sono di quelli che continueranno a camminare al tuo fianco, come è accaduto al sottoscritto. Per tutta la vita.

Pierre Boulle, Il pianeta delle scimmie, Mondadori – gli Oscar della fantascienza, pagg. 173

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