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Riforma fiscale | Quei “meravigliosi” anni Settanta

Devo confessare che si fatica molto a tenere il passo della girandola di annunci che i partiti di governo lanciano su base giornaliera e spesso oraria, dopo aver scoperto il grande potenziale di rimbecillimento delle masse dato dai social network e da talk televisivi sempre più beceri. E così, tra dirette Facebook, proclami Twitter e foto Instagram, il rischio è quello di perdere il contatto con la realtà e di andare incontro ad un rischio di burnout simile a quello che coglierà i nostri eroi.

Proviamo a riepilogare gli assi portanti della manovra, almeno per quanto sappiamo ad oggi. Intanto, è utile segnalare l’imbarbarimento linguistico e semantico dell’attuale fase politica, mai toccato in precedenza. Ad esempio, insistere a chiamare “pace fiscale” quello che è solo uno spudorato condono generalizzato, destinato a restare aperto in permanenza dietro la foglia di fico dello stato di necessità del contribuente.

Parlare di soglia di contenzioso fiscale ad un milione di euro vuol dire includere le imposte dovute, le sanzioni e gli interessi. Anche considerando questo, ed essendo dotati di una fantasia sfrenata, parlare di “piccola evasione di necessità” è più da disturbo psichiatrico che da dialettica politica. Né è chiaro a cosa servirebbe il gettito, essendo una tantum ed al momento del tutto indeterminabile.

 

I leghisti affermano che si tratta di un reset propedeutico al nuovo regime fiscale, ma questa è da sempre la motivazione dei condoni, non si inventa nulla. Ah giusto, la “riforma fiscale”. A chiamarla a questo modo sono io, che mantengo un minimo standard di igiene linguistica. I nostri eroi la chiamano ancora “flat tax”, come ribadito da Luigi Di Maio in una intervista allo spagnolo El Mundo. Flat tax “non rigida ma con almeno tre aliquote”. Non si sa se ridere o piangere, l’unica certezza è che ormai ci rendiamo ridicoli anche agli occhi della stampa estera, con queste dichiarazioni.

Però pare (dicono) che la riforma fiscale non ci sarà, nel 2019. Il prossimo anno si penserà (dicono) solo alle partite Iva, con abbattimento della imposta sostitutiva al 15% su giro d’affari di 65 mila euro (dicono) e forse al 20% oltre i 100 mila (pare). In pochi si renderanno conto che di fatto questa è l’ennesima segmentazione della moribonda Irpef, e che l’aliquota per gli autonomi è a sua volta una gigantesca tax expenditure a danno del lavoro dipendente:

Inutile ripetere le solite cose: per rianimare l’Irpef e andare in direzione di una semplificazione fiscale virtuosa, nel senso di minori distorsioni, occorrerebbe ridurre le tax expenditures, cioè le agevolazioni fiscali, per tagliare le aliquote nominali. Ma non accadrà perché ognuno difenderà i propri benefici fiscali. Ad esempio, ogni anno abbiamo ben dieci miliardi di bonus 80 euro, che potrebbe essere destinato alla semplificazione. Ma come togliere quel benefit ai suoi percettori senza perdere voti? Auguri. Qualcuno penserà ad usare “clausole di salvaguardia”, cioè con la riforma nessuno potrà pagare più tasse. Ma così facendo la complessità del sistema aumenta, e con essa le distorsioni. Ecco perché al momento la riforma fiscale pare destinata a sparire dai radar.

Poi c’è il capitolo pensioni. Dopo il rilancio di Matteo Salvini della “Quota 100”, ma senza dettagli operativi che sono quelli che fanno la differenza ed i costi, sono iniziate le simulazioni. Il ritorno delle pensioni di anzianità in un paese demograficamente disastrato è l’esempio più plastico di quell’autolesionismo che ci affonderà inesorabilmente. Siamo in un contesto di schema Ponzi per tonti, in pratica. I tradeoff sono sempre quelli: pare che in questo paese la gente sia la più logora del mondo, quando è sul lavoro, e di conseguenza debba essere pensionata rapidamente per farli smettere di soffrire, siano essi uscieri o maestre d’asilo.

C’è anche da dire che abbiamo persone che probabilmente intorno ai sessant’anni (ed anche prima) sono delle autentiche pietre al collo delle aziende in cui lavorano, ammesso e non concesso che i loro imprenditori siano meglio, quindi qualcosa da fare ci sarebbe. Ed ecco quindi la proposta di Alberto Brambilla, esperto previdenziale vicino alla Lega ma non organico ad essa, di creare fondi aziendali di scivolo, finanziati anche da contributi dei lavoratori. Che è come dire “aumentiamo il costo del lavoro di questo paese, che tanto è già così basso”.

Secondo il centro di studi previdenziali Tabula, di Stefano Patriarca, per finanziare una nuova pensione di anzianità servono i contributi di cinque nuovi assunti. Se il dato fosse esatto ci sarebbe da scoppiare in lacrime, con singulti incoercibili che qualcuno potrebbe scambiare per una risata isterica. Ma anche questi sono dettagli, nel paese che ha deciso di fottersi con le proprie mani dando la colpa allo Straniero e che insiste con la fiaba della staffetta generazionale. Soluzioni semplici a problemi complessi ed un elettorato profondamente ignorante, ed il populismo è servito.

Poi arriva Giggino Di Maio, nato negli anni Ottanta ma a cui debbono aver raccontato meraviglie dei Settanta, soprattutto a casa sua, e che quindi propone di reintrodurre la cassa integrazione per cessazione dell’impresa, che sarebbe la morte del timido ed insufficiente tentativo avviato nella scorsa legislatura di avviare politiche attive del lavoro. Il mio sospetto è che Di Maio voglia trasformare tutta l’Italia in una gigantesca Pomigliano. Non ci riuscirà, ovviamente, ma i costi rischiano di essere letali per il Paese.

Riguardo ai leggendari piccoli imprenditori del Nord (o meglio, del Nord-Est), la presunta base elettorale leghista, che spesso è composta da semplici terzisti, una leggenda metropolitana che gira da mesi li vorrebbe come una sorta di guardiano dell’ortodossia fiscale ed economica, oltre che liberisti con parecchie b. Sono amabili balle. Molta di questa gente chiede poche semplici cose: poter tornare a fare più nero possibile ed avere sussidi pubblici. Quindi il programma leghista a loro va benissimo. Le aziende vere, quelle che puntano all’internazionalizzazione, sono assai meno base elettorale di quel partito.

 

Come che sia, vedremo se e come il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, riuscirà ad imporre la sua razionale visione, e a limitare i danni per il paese. In caso vi riuscisse, e il rapporto debito-Pil riuscisse pure a calare in modo confortante, i nostri eroi disporrebbero di un maggior tesoretto da spendersi in clientele, e quindi potrebbero durare più a lungo, malgrado siano portatori di visioni del tutto divergenti: gli uni per sussidi al Nord, gli altri per mance al Sud, semplificando brutalmente. Ma lasciar lavorare l’inquilino del Mef, dedicandosi solo a lanciare slogan e drogare le aspettative di un elettorato instupidito dal miraggio della pentola d’oro in fondo all’arcobaleno, potrebbe essere la migliore strategia possibile.

Su tutto e tutti, stiamo vivendo una strategia di marketing politico basata sulla narrazione di un periodo presunto felice, quello degli anni Settanta, che invece è quello in cui si sono gettate le solidissime fondamenta del dissesto italiano. E del resto, in un paese che da sempre resta incollato allo specchietto retrovisore, non poteva andare diversamente.

Addendum – Ovviamente, l’anticipo dell’età pensionabile produrrebbe fame e freddo, per i futuri contributivi puri, ma che ve lo dico a fare? E comunque a loro penserà la futura “pensione di cittadinanza”, no?

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