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Report: l’inchiesta su Tim, i rifiuti tunisini e le due Leghe

Le carte segrete di Tim, spolpata dopo anni di non buona gestione, ma oggi c’è ancora qualcuno che ci guadagna. Poi un servizio sulle due Leghe, quella di Salvini e quella che deve rinsaldare il debito con lo Stato. Nell’anteprima la storia dei rifiuti dalla Campania alla Tunisia.

 

IL RESO TUNISINO di Bernardo Iovene

Nella missione diplomatica del passato dicembre l’ex ministro Di Maio va in Tunisia per parlare di immigrati e dei rifiuti inviati in Tunisia dalla Campania. Per un caso, il giorno dopo della visita i rifiuti vanno a fuoco: oggi sono ancora nel capannone, stipati in attesa di un loro ritorno in Italia.
I responsabili politici sono finiti in carcere – racconta l’ambasciatore tunisino – che ha trattato la restituzione dei container direttamente col presidente De Luca.

Sono rifiuti che si pensava di smaltire in Tunisia, dove il costo della gestione era inferiore (da 24 a 5 ml di euro, un bel risparmio): la Soreplast ha contattato il ministero dell’ambiente italiano ma non quello tunisino, che doveva essere contattato per gli accordi internazionali. Così i container sono stati sequestrati e tenuti fermi nel porto tunisino.
Chi paga oggi i 43 ml di euro, costo del mantenimento dei rifiuti in Tunisia nel porto di Sousse e del viaggio in Italia?
Non lo sappiamo: oggi questi rifiuti sono stati spostati a Persano nel sito militare, senza coinvolgere i sindaci locali e le associazioni di cittadini.
Nel sito di Persano sono stoccate anche le ecoballe che, dopo le arrivo dei rifiuti tunisino, sono state spostate in altri siti.
A Serre oltre allo stoccaggio delle ecoballe, c’è la discarica di Macchia Soprano, scelta dall’allora commissario Bertolaso, costruita al posto di un bosco che è stato sacrificato.
Ci sono dei documenti stilati dai commissari che chiarivano che a Serre non sarebbero arrivati altri rifiuti: ma i protocolli di intesa stilati coi comuni del Sele non sono stati rispettati.
Ma il 20 aprile i container tunisini arrivano a Persano, scortati dalla polizia: l’ordinanza dei rifiuti non arriva dal presidente De Luca ma bensì dal presidente della provincia di Salerno.
Franco Alfieri – presidente della provincia, non ha accettato l’intervista a Report.

Chi ha commesso l’errore dell’invio dei rifiuti in Tunisia? Il sito della convenzione di Basilea contiene i contatti dei referenti politici nel ministero dell’ambiente tunisino. Il funzionario regionale in Campania invece ha raccontato di non aver trovato alcuna informazione, nemmeno su Google.
Purtroppo nemmeno l’amministrazione campana ha accettato di rispondere alle domande.
La Soreplast oggi non vuole pagare i costi e il viaggio dei rifiuti, oltre che dello smaltimento: 
secondo l’azienda l’errore è della regione Campania. Ma nonostante i rifiuti siano della Soreplast, alla fine a pagare saremo noi cittadini.

Ci sono anche i danni in Tunisia: l’ambasciatore è molto chiaro su questo punto, lo stato italiano è responsabile, così la prossima volta che si esportano “illegalmente” rifiuti ci si penserà prima.

QUESTA È TIM di Giorgio Mottola

Nella scorsa inchiesta su Tim, Giorgio Mottola aveva raccontato la storia di Antonio Meneghetti, fondatore della Ontopsicologia, che ha passato gli ultimi anni della sua vita in un borgo sugli appennini in Umbria.
Qui incontra il giovane conduttore televisivo Andrea Pezzi: dalla televisione passa all’imprenditoria, con pochi successi, lanciandosi poi nel settore della pubblicià online.
Da Berlusconi, Pezzi trova come finanziatore Serra, finanziatore della campagna di Renzi: Pezzi gestisce la campagna pubblicitaria di Enel e poi di Tim per 5 ml di euro.
Un fondo francese decide di comprare l’azienda di Pezzi garantendo un buon affare per Pezzi e ai renziani finanziatori del suo progetto: nel 2021 viene assunto come consigliere di Vivendì, advosor di de Puyfontaine, che lo aiuta a decodificare alcuni ragionamenti macchiavellici del nostro paese.
Oggi Tim ha debito per 30 miliardi, i lavoratori sono in solidarietà da anni, ma per Pezzi Tim continua ad essere la gallina delle uova d’oro per il contratto di pubblicità.


Giorgio Mottola in questo servizio racconterà la storia di un altro artista: Salvatore Passaro, partendo dal quadrilatero della moda a Milano.
In un palazzo della zona si tenevano sedute spiritiche dove partecipavano uomini dello spettacolo e altri personaggi: le sedute erano tenute da “maga clielia”, la signora Berghella, secondo alcuni fondatrice di una setta, lei parlava come tramite per Gesù Cristo.
La setta dei guerrieri della luce aveva dentro persone della televisione, cantanti e attori, tra questi Michelle Hunziker: attraverso lei la maga riesce ad accalappiare anche Piersilvio Berlusconi, ad inizio anni duemila. Nessuna seduta – precisa Piersilvio – solo incontri sporadici con la signora Berghella.
Dopo la Hunziker arriva Salvatore Passaro, con cui costituisce un’azienda per gestire l’immagine dei vip, finanziata da Michelle Hunziker e donata a Passaro stesso.

Dopo anni Salvatore Passaro e la maga si ritrovano su un palco per raccontare di Outplay, società di pubblicità online, dietro cui si ritrova Mint, una società di Pezzi: di Outplay Passaro diventa direttore generale.
Passaro si mette in proprio in una azienda di Telecomunicazioni, mettendosi assieme a Giuliano Tavaroli (che ha patteggiato 4 anni e mezzo di carcere per dossieraggio): riesce a piazzare un progetto con Tim sull’efficientamento energetico, che gli vale un contratto da 50 mila euro.

Una strana carriera quella di Passaro: ex cantante, ex pupillo di Spadolini, entra in un circolo esoterico con dentro una maga, che secondo alcuni ex membri era una vera e propria setta.
Dalla società con cui gestisce i divi dello spettacolo, che lavorava con Mediaset, per i suoi rapporti con Piersilvio Berlusconi. Fino al contratto con Tim sul progetto di efficientamento energetico.

Andrea Pezzi avrebbe guadagnato anche dall’accordo tra Tim e Dazn – racconta una fonte anonima a Report: si parla di un accordo di distribuzione tra Tim e Dazn, collaterale all’intesa sulla Serie A. Dazn concede spazi pubblicitari gratuiti a Tim, ma la dirigenza di Tim impone che gli spazi pubblicitari siano gestiti dalla società di Pezzi, la Mint. A cosa serve a Pezzi questo secondo contratti per gli spot?

Pezzi incassa una percentuale dell’8% sugli spot di Tim andanti in onda sulla piattaforma, sono soldi che si aggiungono ai 5 ml di euro che Tim riconosce a Pezzi, ogni anno, per la gestione della pubblicità online.

È Luigi De Siervo che ha gestito la gara per la gestione dei diritti della Serie A, che ha portato poi all’accordo con Dazn: De Siervo e Pezzi sono legati nel progetto Apogeo, un piano presentato a Tim da Raffaello Polchi, imprenditore. Quest’ultimo per far passare il suo progetto in Tim chiede aiuto a De Siervo stesso: si tratta di un progetto da 20 ml di euro, per migliorare la geolocalizzazione delle antenne Tim.

Polchi fu presentato da De Siervo a dei dirigenti Tim, assieme ad Andrea Pezzi: Pezzi l’avrebbe presentato a Labriola, racconta l’imprenditore milanese.
Ma era prima del 2021, precisa Pezzi, prima di diventare advisor di Vivendì.
Chi è Pezzi, una eminenza grigia come racconta Report?
Tim fa partire l’accordo con Polchi, attraverso una società diversa, la Scai group: alla fine vengono versati solo 200 mila euro, perché il progetto Apogeo in Tim viene bloccato.
Ad aver cambiato idea su questo progetto Stefano Siragusa, a capo della rete commerciale di Tim fino al 2022: per un patto di riservatezza non risponde alla domanda di Report, come mai per un progetto da 20ml di euro, con una prima rata da 708mila euro, si staccano solo 205 mila euro, pagato alla Scai (non all’azienda di famiglia di Polchi).

Alla fine sono tanti gli imprenditori che hanno fatto buoni affari con Tim: da Passaro a Polchi col suo progetto Apogeo, che arriva in Tim passando per l’AD della serie A De Siervo.

Un altro contratto che finisce sotto audit è quello sui modem: Tim fa incetta di Modem nel 2020, venduti ad un suo fornitore Gruppo Distribuzione da cui poi li va a ricomprare.
Una operazione anomala, i modem ricomprati sarebbero obsoleti, non si sarebbero mai mossi dal magazzino, la merce rimaneva ferma. Si tratta di una operazione contabile con cui Tim inserisce nei bilanci una voce di ricavo, nei semestri tra 2020 e 2021.
Una cosa gravissima perché Tim è una società quotata, queste cose non dovrebbero succedere.

Gruppo Distribuzione è un fornitore di Tim, il 70% dei profitti arrivano da questa società: c’è un collegamento c’è, se esiste, tra l’operazione modem e il contratto Tim Dazn?
Con l’operazione dei modem, presi e rivenduti da Tim, ha consentito a Gruppo Distribuzione di prendersi un bonus di 25 euro (seguito all’accordo tra Tim e Dazn, per stimolare le vendite), con una operazione senza rischi e oneri.

Qual è la situazione in Tim oggi

Da 12 anni Tim impone il regime di solidarietà alle migliaia di dipendenti: dal 1997 i dipendenti sono stati penalizzati, falcidiati. Da 120 mila sono passati a 40mila i lavoratori.
Tutto questo nasce dalla scelta del modello di privatizzazione: per pagare i propri dipendenti Tim ha chiesto aiuto allo Stato, con salari decurtati del 20% anche.
Cosa vuol dire lavorare in solidarietà?
Lo racconta una dipendente, Sonia Milano: “la cosa triste è che ci siamo abituati [a lavorare in solidarietà] perché 12 anni sono tanti. Vuol dire che la carriera si ferma, perché non ci sono i soldi, quindi non è possibile più di tanto dare i premi, promozioni, una tantum."
Nonostante le esternalizzazioni e i tagli dello stipendio e il blocco delle carriere la maggior parte dei lavoratori di Tim continua a nutrire un senso di fierezza per il proprio lavoro.
È sempre Sonia a parlare: “credo ancora tanto in questa azienda, credo che sia un’azienda che può continuare a fare bene per il paese e che può continuare a crescere. Sono orgogliosa di lavorare in Tim e quello che faccio mi piace.”

Il servizio racconterà anche della infelice storia della privatizzazione di Tim“c’è stato un tempo in cui tutti i dipendenti e non solo tutto il paese era orgoglioso di ciò che rappresentava Telecom.”

Vito Gamberale, primo AD di Telecom Italia negli anni 1995-97 racconta che era il riferimento di Bill Gates, “che ci veniva a trovare una volta l’anno per prendere spunto da quello che facevamo per poter sviluppare i servizi che poi Ms ha sviluppato.
Telecom Italia è l’azienda statale nata nel ‘95 dalle ceneri della vecchia SIP, all’epoca era la sesta compagnia telefonica più ricca al mondo che alla fine degli anni ‘90 arrivò ad essere presente in più di 30 paesi al mondo, tra Europa e Sudamerica. Era una società solidissima che incassa alti fatturati e riconoscimenti internazionali, come il premio per l’azienda più innovativa al mondo vinto nel 1999 per aver introdotto in Italia la carta prepagata nel 1995.

Telecom era fantastica allora, ricorda Romano Prodi: sebbene fosse fantastica nel 1997 Prodi decide di privatizzarla nella convinzione che il grosso delle azioni sarebbe stato comprato da aziende italiani, “sarà il nocciolo duro della nuova Telecom”, così annunciava il governo.

Ma il nocciolo si rivela presto un nocciolino: non va oltre infatti il 6,6% la quota che si limita ad acquisire una cordata di istituti finanziari di cui fa parte l’Ifil, la cassaforte della famiglia Agnelli che, con appena lo 0,6% diventa l’azionista di riferimento di Telecom.
“Io volevo un blocco degli italiani grossi” ricorda oggi Prodi, “perché volevo che il telefono rimanesse in Italia e io dovetti insistere con Umberto Agnelli dicendo ‘ma è un interesse per l’Italia. Io devo privatizzare, è un interesse vostro’. Non hanno capito niente, appena sono arrivati hanno venduto, hanno guadagnando o addirittura hanno spolpato vendendo le case e gli uffici.”
In Telecom gli Agnelli restano per soli due anni ma fanno in tempo per avviare la svendita del patrimonio immobiliare dell’azienda. Dopodiché escono dall’azionariato, vendendo le loro azioni e incassando una plusvalenza di 204 ml di euro.

Mottola ha chiesto ad un altro presidente del Consiglio di quel periodo, Massimo D’Alema, se le modalità con cui si è proceduto alla privatizzazione di Telecom furono sbagliate: 
“sicuramente il risultato della privatizzazione non fu brillante, la famiglia Agnelli sostanzialmente ne deteneva il controllo avendo preso lo 0,6% delle azioni. Fu un po’ la pretesa di una sorta di aristocrazia del capitalismo italiano di fare i padroni senza metterci i soldi.”

Come mai un’azienda modello come quella poi è finita in mano a degli speculatori sostanzialmente, che l’hanno spolpata e basta?

Lei può dare la colpa anche a me” risponde Prodi alla domanda del giornalista di Report “nel senso che io ho cercato dei compratori più affidabili che ci fossero ..”
Nel 1999 gli Agnelli liquidano le loro quote ad una cordata capeggiata da Roberto Colaninno, AD di Olivetti, la scalata riceve la benedizione del presidente del Consiglio Massimo D’Alema che in un discorso pubblico esalta il coraggio di Colaninno e dei suoi soci.
“No” risponde D’Alema al giornalista “io mi limitai a dire che, siccome sembrava uno scandalo, ci sono degli imprenditori che hanno il coraggio di scommettere sul futuro di questa azienda e ci mettono dei soldi. Ci fu una valutazione molto attenta, e decidemmo di tenere una posizione di neutralità.”
All’epoca questa neutralità voleva dire dare il via libera all’OPA.
“Vorrei capire qual era l’alternativa, che dovevamo rinazionalizzarla. Il via libera lo diede il mercato attraverso la gente che aderì all’OPA. Non fu una scelta del governo.”
Diversa l’opinione dell’allora AD Gamberale: “era una operazione ardita, erano validi imprenditori che avevano avuto un dignitoso sviluppo, nel loro ambito territoriale.. ”
Infatti nella scalata a Colaninno mancavano i soldi anche perché la sua Olivetti era 4 volte più piccola della Telecom e così la sua OPA che vedeva la regia occulta di Mediobanca di Enrico Cuccia viene realizzata quasi del tutto a debito: vale a dire che i soldi usati per la scalata vengono quasi tutti chiesti in prestito alle banche che, però, non si rifanno su Colaninno ma direttamente su Telecom. Una rapina, secondo il Financial Times.
“Telecom che aveva in indebitamento bassissimo” ricorda Vito Gamberale “si trovò ad essere gravata di un debito non di natura industriale. Fu introdotto un debito cattivo che è come aver insinuato nel corpo di Telecom un germe di cui poi non si sarebbe mai potuto riuscire a trovare l’antidoto e il vaccino.”
D’Alema sapeva che la scalata sarebbe stata fatta a debito e che i debiti sarebbero ricaduti sull’azienda: “questo era il problema di quell’operazione per la quale noi chiedemmo quali programmi ci fossero. Ma, ripeto, dal punto di vista del piano industriale l’operazione era credibile. E questa era l’opinione di Mediobanca.
Eruna operazione per poter entrare nel salotto buono della finanza, quella di D’Alema?
“Lei può scrivere quello che vuole, in questo paese ci sono tanti cretini che credono quello che vogliono..”

Nel 2001 arriva Silvio Berlusconi al governo e in Telecom è il turno di Marco Tronchetti Provera, patron della Pirelli. Anche la sua scalata è fatta contraendo debiti che esplodono però soprattutto dopo la fusione di Telecom con la sua partecipata Tim. In questo modo l’indebitamento della compagnia telefonica raggiunge la cifra monstre di 39 miliardi di euro.
Sulla gestione Tronchetti Provera torna Gamberale: 
“secondo me la gestione Tronchetti Provera dal punto di vista prettamente industriale è stata la meno estranea. Poi furono aggiunte della operazioni finanziarie che non avrebbero portato alcun beneficio nel gruppo ma anzi sarebbero state malefiche, come l’OPA sul flottante di Tim che incrementò il debito.”

Oggi l’azienda sembra allo stato finale della malattia: se nel 97 un’azione di Telecom valeva circa 6€, oggi il titolo è sprofondato a 0,18€. All’inizio del secolo Telecom aveva filiali in 30 nazioni, al momento è presente solo in Brasile, ma nonostante i numeri disastrosi in molti hanno festeggiato.
In 25 anni gli azionisti privati sono riusciti a spartirsi oltre 60 miliardi di dividendi e le banche d’affari americane e ita
liane hanno incassato 30 miliardi di euro di interessi sui debiti di Telecom.

Che sentimenti prova, ha chiesto Mottola a Gamberale: una grande amarezza, quello di Telecom è stato un grande suicidio industriale.

Per entrare nell’euro Prodi dovette privatizzare e vendere Telecom: quello che è stato l’inizio dello spolpamento, da Agnelli a Colaninno con la scalata a debito. Fino a Tronchetti Provera, che sbagliò nella fusione tra Tim e Telecom, con l’esplosione del debito, che bloccò il piano industriale a cui si aggiunse l’inchiesta dello spionaggio indistriale (che coinvolse Tavaroli).
Da Tronchetti a Telco a Vivendì, azienda del manager francese Bollorè, il boa, secondo i suoi detrattori: Bollorè tentò la scalata a Mediaset, poi fermato.
L’operazione con Dazn serviva a rinforzare la posizione di Tim, nei confronti di Sky: ma questa operazione ha creato problemi lo stesso.

Oggi Tim vuole vendere la rete fissa a Cassa Depositi e Prestiti: ma lo stato non può spendere oggi 30 miliardi per la rete.

Si rischia di rivedere per Tim la parabola di Alitalia: vedremo uno spezzettamento per sopravvivere?

Il nuovo AD Labriola vorrebbe separare servizi e rete, lo scorporo per separare Tim dalle altre società di servizi. In buona parte dei paesi europei le società di TLC di stato controllano sia la rete che i servizi: se si dovesse separare la rete, a chi finirebbe in mano? A fondi privati che poi venderebbero le informazioni ad altri?
CDP valuta la rete di Tim 15 miliardi di euro, ma Vivendì non vuole vendere a meno di 30 miliardi: oggi con una quotazione in borsa prendersi Tim costerebbe 4 miliardi, basterebbe fare una operazione di Opa.

Cassa Depositi e Prestiti con 2 miliardi potrebbe fare questa Opa parziale con l’aiuto dei fondi su Telecom– spiega l’analista finanziario Matteo Decina – e diventerebbe così l’azionista di maggioranza di Telecom, avrebbe sì 30 miliardi di debiti lordi, ma vendendo Tim Brasil e Tim Servizi per 20 miliardi e così i debiti diventano 5 miliardi netti, questo sarebbe l’optimum.

Il grande problema per il governo italiano sono i francesi di Vivendì, che avevano comprato il 23% di Tim quando il titolo valeva 1 euro, ma dopo sette anni le azioni sono crollate a circa 20 centesimi. Quindi se ora vendessero la propria quota al prezzo attuale di mercato l’azienda francese rischierebbe di perderci miliardi.

Vivendì è un problema perché è un socio che si è fermato alla soglia dell’OPA al 24%” commenta Fabrizio Solari segretario nazionale SLC CGIL “quindi non è il padrone di Tim, ma ha una massa critica tale da impedire che qualcun altro possa decidere al suo posto.”
Ma qual è la visione industriale che Vivendì ha di Tim allora? Risponde sempre il sindacalista, 
“non ce l’ha.”
Obiettivo di Vivendì è oggi solo rientrare nel suo investimento: l’ex socio di Bollorè racconta di come la sua ascesa dipende dai rapporti con leader politici francesi di destra, come Sarlozy.
Ma anche Hollande e Macron: ma alla fine Macron gli preferisce un’altra emittente e così Bollorè si spostò su linee editoriali di destra e estrema destra.
Erik Zemmour è la star della televisione di Bollorè: nelle sue trasmissioni si è sempre scagliato contro gli immigrati, grazie alla televisione ha raccolto una buona fetta di elettori francesi alle passate elezioni presidenziali.

Zemmour e il suo partito Reconquete hanno posizioni simili a quelle di Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni: contro l’islam, contro gli ambientalisti e a favore del nucleare, contro le femministe.
Dietro la candidatura di Zemmour, c’è Bollorè, eminenzia grigia del suo partito.


E ora cosa farà il governo italiano? Riusciremo a riprenderci la rete e a tenere il controllo dei servizi che viaggiano su questa?

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