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Rendimi immortale con un clic. Romeo, Giulietta e la postmodernità

di Adolfo Fattori

Capitava anche prima che un’immagine, una foto, facessero il giro del mondo, grazie ai giornali, alla Tv. Ricordiamo quelle del cormorano tutto impiastricciato di petrolio, quella del colossale “top gun” americano tenuto sotto mira da una minuscola vietcong, quella della “Marianna” parigina tenuta sulle spalle da qualcuno durante il Maggio francese. Ma se ne potrebbero contare tante altre. Sono rimaste nell’immaginario a rappresentare non solo eventi, ma emozioni, atmosfere. Sono “memoria storica” e contemporaneamente “collettiva”. E da questo punto di vista non ha importanza che siano falsi (come quella del cormorano) o attimi di realtà sottratti all’oblìo. Sono diventate icone del simbolico e sopravviveranno al tempo e ai loro stessi soggetti. Questi sono diventati celebri – e viaggiano verso l’immortalità.

Perché con la digitalizzazione virtualmente diventano eterni, come le foto che li hanno catturati.
 
Ma a quelle immagini che sintetizzano eventi ben più grandi di coloro che ritraggono, se ne aggiungono altre, di piccoli eventi, destinati ad essere dimenticati.
 
Foto magari casuali, impreviste, frutto di scatti fortuiti, casuali – e fortunati. Ma anche queste già destinate ad attraversare lo spazio, grazie al Web, e a oltrepassare il tempo (la Rete è così: infinita nello spazio, eterna nel tempo).
Come quella scattata qualche settimana fa durante i disordini seguiti a Vancouver dopo una partita di hockey su ghiaccio – per tradizione uno degli sport di squadra più violenti – in cui i tifosi hanno voluto emulare una volta tanto i loro idoli fuori del campo, per le strade della città.
 
Nella foto, in notturna, vediamo: in primo piano, sulla destra, sfocato, un poliziotto in tenuta antisommossa; sullo sfondo, sfocate, persone di spalle che corrono; e… al centro esatto dell’inquadratura, perfettamente a fuoco, una ragazza stesa per terra, un giovanotto che le sta affianco, la tiene stretta, sembra la stia baciando, in atteggiamento protettivo.
 
Bene, la foto ha fatto subito il giro del Web. E si è scatenato subito il dibattito: “È vera”. “È un fake”. “Che eroe!”. “Macché: che furbone, piuttosto!” E così via…
Fatto sta, quasi fosse l’inquadratura di un film, che la forza drammatica del contrasto fra quel bacio e quello scenario cattura subito lo sguardo (complici forse anche le lunghe gambe scoperte della ragazza) e la candida all’immortalità. E con lei, i due protagonisti.
 
Nella versione demagizzata della tarda modernità, naturalmente… In L’immortalità (2009, pp. 61-62) Milan Kundera – raccontando di Wolfgang Goethe – scrive della speranza di eternità che noi moderni coltiviamo, di come questo desiderio sia del tutto laico, e di come non consista nella credenza di ritrovarsi prima o poi a contemplare la gloria di una qualche entità soprannaturale, quanto – molto più immodestamente – di collocarsi stabilmente nella memoria di chi ci sopravvive.
 
Ma questa passa, necessariamente, per quello che riusciamo a depositare dietro di noi come lascito per chi rimane. Lo scrittore ceco distingue anche fra piccola e grande immortalità, dove la prima è “privata”, legata alla cerchia dei congiunti, degli affini, la seconda è quella di coloro che ricordiamo attraverso le opere che hanno realizzato. E che gli sono sopravvissute, perché continuano a parlarci del mondo e della condizione umana. Come nel caso di Goethe.
Queste versioni dell’immortalità vengono da lontano, hanno in sé qualcosa che attiene al simbolico, condividono con la dimensione arcaica del “sacro” tratti di rispetto, empatia, trascendenza.
 
Qualcosa di ben diverso, quindi, del “quarto d’ora di celebrità” di cui chiunque avrebbe goduto secondo Andy Warhol, in quello che sarebbe stato il suo futuro ed è il nostro presente. L’artista newyorkese pensava alla Tv, possiamo immaginare. Noi, che siamo già nel futuro, pensiamo al Web. E al prolungamento all’infinito di quell’avaro quarto d’ora.
 
Torniamo alla fotografia: sempre Kundera nelle stesse pagine, scrive: “… cambia il carattere dell’immortalità nell’èra degli obiettivi? Non ho dubbi sulla risposta: essenzialmente no; perché l’obiettivo fotografico c’era già molto tempo prima di essere inventato; c’era la sua essenza non materializzata. Anche senza un obiettivo puntato addosso, gli uomini si comportavano come davanti a una macchina fotografica. Intorno a Goethe non si agitava nessuna folla di fotografi, però si agitavano le ombre dei fotografi proiettate su di lui dalle profondità del futuro”. (Ibidem, p. 65).
 
Questo valeva – e vale – per chi, meritatamente o meno, è destinato alla “grande” immortalità di cui scrive il praghese.
 
Ma ne esiste una (né piccola, né grande?), cui si accede per caso: quella della piccola vietcong, della giovane parigina, anche del gigantesco pilota americano (che ne avrebbe fatto volentieri a meno, credo…). Per una serie di coincidenze, grazie alla dimensione romanzesca della vita (altro tema caro a Kundera, fra l’altro: si rilegga L’insostenibile leggerezza dell’essere [1985] al proposito), per esempio.
 
Come i due ragazzi di Vancouver. Pare che – e perché non credergli? – si siano trovati lì per caso, che allontanandosi per non finire nei guai lei sia caduta, che lui abbia cercato di rassicurarla e proteggerla. E pare che il fotografo, che era lì per gli scontri, non si sia nemmeno accorto di aver scattato la foto: l’ha “scoperta” solo in seguito. Virtù della fotografia digitale: se la lasci a se stessa, fa da sé, scegliendo il fuoco, il diaframma, la luce migliore…
 
A seguire il ragionamento di Kundera, che cita Goethe mentre descrive il sipario del nuovo teatro di Lipsia, i due giovani hanno fatto come Shakespeare: “Al centro, in uno spazio vuoto, «un uomo con una giacca leggera, senza prestar attenzione (ai grandi drammaturghi di tutti i tempi, n.d.a.), andava dritto verso il tempio; lo si vedeva di spalle e non c’era in lui niente di speciale. Doveva essere Shakespeare, il quale, senza precursori e del tutto incurante di qualsivoglia modello, procedeva per conto suo verso l’immortalità.»” (2009, pp. 62-63).
 
Il fondatore del dramma moderno, effigiato su un sipario, dimentico di se stesso, totalmente noncurante di quelle “ombre dei fotografi del futuro” di cui scrive il ceco.
 
Lo stesso – e qui veniamo al cuore della questione – che ci guida a ipotizzare la forza segreta, profonda, della foto di Vancouver. Possiamo credere o meno alle dichiarazioni dei due innamorati, come a quelle del fotografo. Valgono poco i distinguo e i cavilli dei dietrologi e dei saccenti (in genere sono il paravento di una certa dose di invidia): ancora una volta, vale la saggezza del “quando il saggio indica la Luna, lo sciocco guarda il dito”. Anche perché, fra l’altro, se la foto fosse un falso, sarebbe un capolavoro di arte digitale (Bolter, Grusin, 2002, pp. 137 e segg.).
 
Non ci interessano le origini o la volontarietà della foto, la sua “messa in scena” artificiale o meno alla fonte di quello scatto; quello che invece pesa, e dà senso alla foto è il senso che noi gli diamo, la sceneggiatura che noi costruiamo attorno a quell’attimo fortunato: il prima e il dopo quell’istante sottratto dall’obiettivo alla realtà che scorre, perché l’immaginario lo assegni ad un’altra realtà, più profonda, quella del Mito.
 
La forza invasiva, esplosiva che noi, spettatori attoniti, assegniamo a quella fotografia è nella contrapposizione e collaborazione diretta, sintetica, im-mediata, necessaria, dei cardini del Mito e dell’immaginario: il conflitto, la Bella, l’Eroe, la violenza, l’amore. Verità decisamente più antiche e durevoli di quelle del fatto di cronaca o del gossip rimediato, che per uno di quei cortocircuiti in cui l’immaginario ci immerge, superano vertiginosamente i secoli e uniscono le radici dell’amore moderno e i suoi ultimi approdi.
 
La guerra e il bacio: Romeo e Giulietta al tempo del postmoderno. Una verità che diventa garanzia di immortalità, fatta di tecnologie digitali e immaginazione collettiva.
 
“La verità – si sa – è una questione di immaginazione.” (Le Guin, 2003)
 
Letture
Bolter J. D., Grusin R., Remediation, Guerini e Associati, Milano, 2002.
Kundera M., L’insostenibile leggerezza dell’essere, Adelphi, Milano, 1985.
Kundera M., L’immortalità, Adelphi, Milano, 2009.
La Guin U. K., La mano sinistra delle tenebre, TEA, Milano, 2003. 

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