Renato Accorinti, il sindaco disobbediente di cui avevamo bisogno
C'è un aspetto che mi sembra significativo nelle reazioni indignate dall'atto di Renato Accorinti di esporre la bandiera della pace nel giorno della celebrazione delle Forze Armate. È la sorpresa nel rendersi conto di come lui non sia cambiato.
Nessuno, in fondo, mette in discussione le posizioni pacifiste del sindaco. In tanti, anche tra i suoi passati detrattori, hanno imparato a convivere, se non proprio condividere, un certo suo modo non convenzionale di vestire e comportarsi. Qualcuno di questi ha forse anche deciso di interloquire attraverso modalità nuove, non segnate dalle gerarchie politiche. Ma ciò che, evidentemente, non va giù è ritrovarsi il Renato di sempre, quello che, da solo, saliva su un palco, su un muro, su un pilone per manifestare il proprio punto di vista (attraverso un atto di disobbedienza) e, sia ben chiaro, il Renato che ha vinto il ballottaggio ed è diventato sindaco.
Ciò che indispettisce, e insospettisce, è non ritrovare un sindaco normalizzato, riportato nei ranghi, “realista”, “opportuno”, obbediente alla forma e piegato da tutte le compatibilità. Ma può la disobbedienza amministrare una città? È questa la domanda che i professionisti della politica urlano, smarriti. Può esistere una politica altra che continua a chiamare le cose con il proprio nome anche quando è chiamata a ricoprire incarichi di governo? Può questa politica continuare a dire che la pace è l'opposto della guerra e che il disarmo è l'opposto della celebrazione delle forze armate?
Certo, siamo bombardati da una narrazione consolidata che ci dice che le operazioni di guerra sono operazioni di pace e che l'accoglienza è una questione di ordine pubblico, ma c'è un uomo che, indipendentemente dal ruolo che ricopre, dice che "no, non è così". Gli eserciti fanno stragi di corpi, le spese militari impediscono che quelle risorse vengano utilizzate per i servizi sociali, gli uomini sono tutti fratelli, indipendentemente dal loro luogo di nascita.
C’è una straordinaria modernità in questo. C’è una straordinaria modernità nei piccoli, semplici gesti di un sindaco che non si adatta “ad essere come vorrebbero loro”. È la politica al tempo della crisi della politica. Occhi attenti e non velati dal rancore scorgerebbero in questo la produzione di un tempo nuovo, quello del ritorno della politica al suo spazio, una rifondazione della democrazia contro il suo perdersi nei vincoli contabili, nelle procedure, negli equilibri corporativi.
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