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Regionalismo differenziato e U.E.

Le riflessioni che seguono traggono spunto dalla presentazione del saggio del prof. Gian Paolo Manzella, consigliere SVIMEZ e già sottosegretario al Ministero dello Sviluppo Economico con il Governo Conte 2, tenutasi a Potenza lo scorso 2 dicembre ed organizzata dal comitato “Comunità e sviluppo Basilicata” di concerto con la stessa SVIMEZ.

 Manzella è funzionario del Fondo Europeo per gli Investimenti, quindi, potremmo dire, “persona informata sui fatti”. L’opera si presenta come un saggio di storia della politica regionalista a partire dagli albori della Comunità fino al Next Generation EU. Le differenze e le problematiche territoriali dell’Europa sono tali e tante che la questione regionale è stata centrale sin dall’inizio ed ha influito sugli sviluppi successivi che hanno portato all’attuale Unione Europea. La questione regionale è importante per una serie di questioni che non incidono solo sull’aspetto delle politiche economiche messe in campo dell’UE. Spesso si è fatto leva sulle regioni per ottenere il superamento dei singoli Stati nazionali e poter costruire quella “cosa” che oggi non è uno Stato ma solo un insieme di apparati burocratici e tecnici oltre che di istituzioni politiche, percepita come lontana da diversi milioni di cittadini europei, non solo italiani. Da Maritain fino a De Benoit, pur se con sfumature più o meno marcate, in molti sono coloro che hanno teorizzato il superamento degli Stati nazionali in funzione della costruzione di quelli che per alcuni dovrebbero diventare gli “Stati Uniti d’Europa”. Il regionalismo che contraddistingue l’azione politica dei singoli Governi Europei, dal Trattato di Roma in poi, è motivato dalla necessità di superare i divari e le disuguaglianze tra le varie regioni europee al fine di costruire un sistema coeso capace, appunto, di superare le differenze tra i singoli Stati che progressivamente hanno aderito alla formazione di ciò che oggi è l’U.E. Con il termine regionalizzazione si è inteso quel processo di riforme con le quali il potere centrale dello Stato ha via via trasferito alle istituzioni locali competenze e funzioni. Questo processo ha seguito percorsi diversi a seconda delle istituzioni di ciascuno degli Stati interessati. Il Belgio si è trasformato in uno Stato federale; altri percorsi hanno seguito gli Stati già federali come Germania ed Austria; Italia, Francia e Spagna hanno seguito percorsi propri, vista la tradizione istituzionale di ciascuno di essi. In questi tre Paesi le preesistenti pulsioni autonomiste di alcuni territori sono state incoraggiate dalle politiche regionaliste dell’U.E. In Italia è nata le varie Leghe al Nord mentre al centro, nelle regioni amministrate dalla Sinistra, oggi il PD è a tutti gli effetti una sorta di Lega tosco-emiliana. In Spagna, dove le spinte regionaliste sono emerse all’indomani della fine del Franchismo fino al tentativo di indipendenza della Catalogna. In Francia, invece, il regionalismo è nato a partire dagli anni 80 del 900 sotto la spinta del governo centrale ed anche in questo caso sono emerse le rivendicazioni autonomiste della Savoia e della Normandia. Dalla lettura del saggio di Manzella si evincono chiaramente i vari passaggi che hanno portato alla devoluzione delle competenze degli Stati verso le regioni (o istituzioni equivalenti), si osserva anche come progressivamente è cresciuta la posta finanziaria dedicata a politiche di sostegno a favore delle regioni. Personalmente, dopo aver letto il saggio, ho rafforzato ancora di più la posizione critica, non euroscettica, verso questa UE alla luce del dibattito in corso circa il “regionalismo differenziato”. Pensare che le rivendicazioni regionaliste presenti oggi in Italia non trovino genesi e alimento nelle politiche regionaliste messe in campo a livello Europeo è davvero difficile. La politica europea è mutata dalle origini ad oggi. Come scrive lo stesso Manzella negli anni dal 1989 al 1993 con il “Libro Bianco sul mercato interno” di Delors e il c.d. << Rapporto Padoa – Schioppa>> l’impianto istituzionale europeo e le stesse politiche subiscono un mutamento profondo. Scrive l’autore << Sul piano dell’assetto istituzionale, la riforma del 1988 ridefiniva uno dei punti modali dell’intervento regionale sino a quel momento: quello del rapporto tra i livelli di governo europeo, statale e regionale. Si registra, infatti, un aumento delle relazioni dirette tra livello comunitario e regioni, in un rapporto che Delors definì di compagnonange. …>>( cfr pag. 77) Sono queste innovazioni profonde al punto tale che secondo alcuni si configura come un vero e proprio modello di economia sociale di mercato da contrapporre all’impostazione neo – liberista di stampo anglosassone. È questo un punto nodale dell’intera ricostruzione storica delle politiche regionaliste europee. Pensare che l’U.E. sia un modello ispirato all’economia sociale di mercato mi lascia quanto meno perplesso. L’economia sociale di mercato o ordoliberalismo teorizzato dalla Scuola economica di Friburgo,che ha in Ropke, Walter Euchen, Muller – Armack, Rustow, Bohm i suoi riferimenti, era già in piena crisi. Nel 1957 si consumò la rottura tra Ropke e von Hayek, (Ropke rinunciò alla presidenza della Mont Pelerin Society) e tale rottura non è indifferente sul piano della elaborazione teorica e degli sviluppi successivi del modello economico neoliberale verso l’economia sociale di mercato. Le politiche economiche ispirate all’economia sociale di mercato hanno raggiunto l’apice negli anni ‘60 del secolo scorso in Germania, ne è prova la rinuncia al marxismo da parte dell’S.p.D. e la sua adesione all’economia sociale di Mercato. L’influenza dell’ordoliberalismo, in quegli anni, va ben oltre i confini tedeschi; per esempio, in Italia tanto DeGasperi che i governi di centro-sinistra guidati da Fanfani, sono stati influenzati da quella filosofia economica. A partire dagli anni ‘70 il contesto mutò. Siamo in presenza della reazione neoliberale che ha un passaggio cruciale con la fine dell’URSS e l’emergere delle differenze tra il modello di capitalismo renano e quello anglo – americano. Il processo di reazione neoliberale investì anche l’Europa che si apprestava a trasformarsi, a partire dal Trattato di Maastricht, in Unione Europea. Quello che sembra un coinvolgimento delle parti sociali e delle amministrazioni territoriali nei processi decisionali non è altro che la logica del mercato applicata ai processi decisionali: si passa dal governo della cosa pubblica alla governance. Il mercato, è cosa nota, non favorisce la coesione ma la destrutturazione del sistema sociale. A leggere i dati che la SVIMEZ, nel suo rapporto annuale presenta, si fa davvero fatica a vedere risultati positivi, almeno per le aree come il Mezzogiorno d’Italia. Gli strumenti finanziari utilizzati dall’UE per superare la disparità tra le varie regioni europee sono i c.d. Fondi di finanziamento UE. In linea di massima i “Fondi” sono risorse finanziarie a fondo perduto che l’UE mette a disposizioni sia di soggetti pubblici che privati per la realizzazione di interventi individuati dalla stessa UE. I bandi pubblicati sulla GUUE contengono la descrizione del programma e la sua dotazione finanziaria, la procedura e i termini di presentazione delle proposte, l’importo del contributo finanziario comunitario, i requisiti minimi per partecipare, i criteri di selezione ed altro ancora. I progetti selezionati devono essere fortemente innovativi e presentare un valore aggiunto europeo nel senso che essi devono contribuire al raggiungimento di obiettivi validi per più Stati membri dell’UE. I bandi stabiliscono inoltre la percentuale di co – finanziamento dei costi progettuali che varia tra il 50 e 100% del costo totale del progetto. In sostanza per attivare le risorse finanziarie previste dai Fondi UE il beneficiario deve poter contribuire con risorse proprie che possono essere: fondi nazionali, sponsor privati, prestiti bancari, apporti in natura quali personale retribuito, uso di locali, infrastrutture ecc. Perciò sostenere che tali forme di finanziamento non rientrino in politiche economiche neoliberali lo trovo a dir poco disdicevole. L’idea di fondo che alimenta le politiche regionaliste dell’UE ricorda molto ciò che sosteneva von Hayek, uno dei maggiori teorici della Scuola economica austriaca. Nello specifico Von Hayek espose la sua teoria sulle relazioni internazionali nell’articolo “Le condizioni economiche del federalismo interstatale”, nel capitolo XII del saggio “Individualismo e ordine economico”. In sostanza Von Hayek sostiene che, per eliminare alla radice le cause che hanno portato ai due conflitti mondiali, bisogna abbattere gli Stati nazionali attraverso una sovrastruttura capace di limitare il potere degli Stati – Nazionali eliminando in questo modo le barriere alla libera circolazione di beni ed individui perché solo il mercato è in grado di porre fine ai conflitti bellici. Coerentemente con questa impostazione l’idea dei “fondi UE” mette a disposizione degli individui (per analogia delle regioni) meno sviluppati risorse finanziarie da attivare al fine di uscire fuori dallo stato di precarietà, povertà ecc. nel quale si trovano. Il concetto è semplice: ti aiuto purché tu, potenziale beneficiario, dimostri di essere in grado con quei fondi, aggiunti a tue risorse, di competere sul mercato. Il presupposto teorico è facilmente criticabile da Sinistra perché, nella pratica, finisce con il favorire le realtà economicamente più forti rispetto a quelle più deboli, alimentando filiere clientelari e posizioni di rendita; ma è criticabile anche da un liberale come Rawls il quale, ad esempio in “Teoria della giustizia”, si era già posto, mezzo secolo fa, il problema dei diseguali punti di partenza rinviando la soluzione a regole universali condivise da tutti, e questo per restare nell’alveo del pensiero Liberale. Nelle aree più arretrate del Mezzogiorno, per esempio la Basilicata, l’accesso ai Fondi UE passa attraverso filiere clientelari dove l’azione politica svolge un ruolo subordinato. Per dirla in modo brutale: se una impresa o uno studio tecnico ha individuato la possibilità di candidare una propria “idea progettuale”,intercetta l’amministrazione pubblica la quale, nella maggior parte dei casi, non avendo né risorse finanziarie,né personale adeguato,tantomeno idee, vede il progetto proposto dalla lobby di turno come una vera manna caduta dal cielo. Un tale processo è coerente con il processo di formazione delle decisioni a livello di UE. Infatti non sono poche le decisioni prese a livello UE su pressione delle lobbies, anzi, più precisamente, degli stakeholder che operano nei palazzi. In conclusione le politiche regionali dell’UE sono un combinato disposto tra le visioni ideologiche, che vogliono cancellate lo Stato – Nazione perché causa di tutti i mali, con gli interessi delle lobbies, che chiedono più mercato perché solo in questo modo possono condizionare meglio le decisioni dell’eurotecnocrazia e nel contempo realizzare profitti sempre maggiori. Per cui pensare che il regionalismo differenziato tragga origine dalle politiche UE mi sembra abbastanza ovvio. La relazione di mediazione che si crea tra euro tecnocrazia e interessi lobbistici trova terreno facile proprio rispetto alla minore capacità che le istituzioni locali hanno di controllare e indirizzare il mercato. La governance non è altro che il mercato applicato alla gestione della cosa pubblica.

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