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Referendum scozzese: una lezione capita a rovescio

Come era prevedibile, il referendum scozzese ha tenuto banco sui giornali per diversi giorni; quello che non era prevedibile è stata la valanga di sciocchezze che abbiamo letto. Tutti - o quasi - hanno constatato che, con la decisione di Londra di ammettere il referendum - riconoscendo implicitamente il diritto all’autodecisione degli scozzesi - hanno “sdoganato” il principio per tutti gli altri. E l’esito, che ha bocciato la proposta indipendentista, rafforza questa tendenza, perché lo Stato centrale può sempre pensare di vincere il referendum e, con questo, rilegittimarsi agli occhi dei suoi cittadini. Pertanto, non ci sarebbe motivo di rifiutare la proposta referendaria, anche per gli altri stati nelle stesse condizioni. Ad esempio, per Madrid sarà ora più difficile opporsi alla richiesta dei catalani. Sin qui non c’è ragione di dissentire: il senso di quello che è accaduto va sicuramente in questo senso. I guai cominciano dopo.

I cantori della “fine del centralismo” dichiarano superato il principio nazionale e disegnano improbabilissime architetture istituzionali futuribili. Ulrich Beck su Repubblica, Piero Bassetti ed Antonio Armellini sul Corriere si sono scatenati a ipotizzare forme di governo “glocal”. Armellini è il più cauto: pensa a forme di devolution più spinte che tutelino le identità delle nazionalità minoritarie senza mettere in discussione lo stato nazionale. Più scatenato è Bassetti che sogna di saltare l’anello dello stato nazionale in favore di una rete di forme locali di autogoverno, città libere, regioni e province autonome ecc coordinate da strutture di governo globale non si capisce espresse da chi. Per culminare nella “sociostar” Beck che pensa ad una Unione europea con i vertici attuali (più o meno) sotto i quale il vero centro decisionale sarebbero le grandi aggregazioni metropolitane e cosmopolite, Che idea geniale!

In un prossimo articolo discuteremo quanto sia auspicabile un modello istituzionale del genere che a sinistra piace tantissimo: dai centri sociali ai piddini à la page, dagli anarchici agli ecologisti è tutto un fiorire di cantori della democrazia delle comunità locali che, però, non vogliono assolutamente rimettere in discussione la globalizzazione che è sinonimo (per loro) di internazionalismo, universalismo, modernità, solidarietà umana ecc. E, dunque, cosa di meglio di un bel sistema “glocal”?

Tutti questi si dividono fra quelli che fanno come se ci fosse solo l’Europa e il resto del Mondo non esistesse e quelli che pensano che questa tendenza “glocal” sia generale e destinata ad affermarsi sull’orbe terracqueo intero. Pensate ad Impero di Negri ed Hardt.

E dunque, verifichiamo in primo luogo l’assunto che si tratterebbe di una tendenza generalizzata a livello mondiale, per cui dobbiamo pensare ad un futuro caratterizzato da una governance mondiale sotto la quale agisce una miriade di comunità locali più o meno debolmente collegate (o forse no) in patti macro regionali o in larvali sopravvivenze di stati nazionali.

Nelle Americhe l’unico caso di rilievo è quello dei francofoni del Quebec, mentre del tutto secondarie e trascurabili appaiono effimere ventate indipendentiste negli Usa o in Messico: nulla di serio che possa mettere in discussione gli attuali stati nazionali, almeno in un futuro politicamente prevedibile. Anche nel sud non si apprezzano tendenze di qualche consistenza in questo senso e gli stati nazionali non sembrano in discussione.

Nell’area mediorientale ci sono alcuni casi di notevole peso (palestinesi, curdi, armeni, recentemente cristiani ed animisti del Sud Sudan e pochi altri) che aspirano a separarsi dagli attuali stati nazionali, ma per dar vita a propri stati nazionali. Questi casi si sommano a questioni di frontiera che, più che prefigurare nuovi stati, ipotizzano il passaggio di alcune regioni ad altra aggregazione statale (ad esempio gli sciiti di Iraq); ma, nel complesso, le linee di frattura prevalenti sono altre (sunniti/sciiti; islam turco-egiziano/islam beduino; panarabismo/panislamismo; stati repubblicani/monarchie ecc.). Pertanto, gli stati nazionali, nella maggior parte dei casi, non sembrano in discussione mentre si osservano tendenze diffuse a guerre civili interne (Egitto, Algeria, Yemen, Barhein), che nei casi estremi (Libia, Iraq e Siria) si connettono ad antiche linee di frattura etniche, religiose e tribali portando alla dissoluzione dello Stato nazionale, senza che si possa ancora comprendere verso dove si stia andando. In ogni caso, sembra trattarsi di dinamiche centrifughe di natura diversa da quella dei casi europei.

Nell’Africa sub sahariana le tendenze indipendentiste si sono manifestate vivacemente subito dopo l’avvio del processo di decolonizzazione (Katanga in Congo, Eritrea, Ogaden e Tigrai in Etiopia, Biafra in Nigeria ecc. che, comunque, avevano più carattere etnico-tribale o religioso che propriamente nazionale) che si incrociavano ad insorgenze nazionaliste contro le residue situazioni coloniali (Angola, Mozambico, Guinea, Costa dei Somali, sino al 1962 Algeria). Ma, allo stato dei fatti, gli attuali assetti statali hanno pochissime sfide di natura indipendentista, mentre sembrano prevalere altre dinamiche come quella dello scontro fra Islam e culture di tradizione animista o cristiana.

In Oceania il problema non si pone affatto, mentre in Asia le cose si prospettano in modo assai diverso, perché nei due maggiori paesi, India e Cina, si prospettano sfide separatiste (Xinjiang e Tibet in Cina, Uttar Pradesh in India dove c’è pure l’annosa questione del Kashmir), ma prevalentemente si tratta di questioni di frontiera, peraltro sin qui abbastanza controllate, che non intaccano affatto il nucleo centrale dello Stato: se anche Tibet, Uttar Pradesh o Xinjiang se ne andassero, Cina ed India resterebbero comunque grandi potenze con una popolazione superiore al miliardo di persone. Quanto alla maggioranza degli altri stati nazionali (come il Giappone, le Filiippine o la Thailandia) il fenomeno è sostanzialmente assente. Unici casi di qualche peso sono quelli dei curdi iraniani, degli sciiti pakistani e di Timor est in Indonesia. Ma, anche in questi casi, il nucleo centrale dei rispettivi stati nazionali non appare in discussione.

Veniamo ora al caso Europeo: accanto a rivendicazioni di indipendenza di antica data (Scozzesi, Irlandesi, Catalani, Baschi), a partire dagli anni settanta, sono andati via via manifestandosi altre richieste di indipendenza o di “autonomizzazione estrema” (sardi, galiziani, andalusi, corsi, bretoni, kosovari, macedoni ecc.) e negli ultimi tempi il fenomeno si è fatto valanga. Allo stato attuale si contano circa 150-200 potenziali separatismi, che si sommano alla tendenza all’autonomizzazione delle 500 regioni che compongono la Ue.

Dunque, possiamo stabilire un punto: questa tendenza al decentramento localistico ed alla “secessione a catena” non è una tendenza generale, come molti, sragionando sostengono. È un fenomeno schiettamente europeo e che, una ventina di anni fa, ha colpito l’ex Urss.

Questa è la solita storia per cui l’Europa legge il Mondo attraverso le sue dinamiche interne per le quali pretende che quando lei ha il mal di pancia tutti gli altri abbiano la diarrea. Per cui, senza porci per ora il problema del se questo sia auspicabile o meno, dobbiamo ragionare in termini di tendenze regionali del Pianeta e, pertanto, di un aumento della asimmetria globale, per cui a grandi stati asiatici ed americani si contrapporrebbe una aggregazione colloidale europea, fatta di circa 5-600 entità locali (regioni, città metropolitane, provincie autonome, mini-stati nazionali e magari granducati).

Si badi che non si tratterebbe comunque di autonomie locali, nel senso attuale del termine, ma neppure soggetti pienamente sovrani, ma di qualcosa di intermedio fra le due cose. Quello che è peggio è che questa dinamica allo spezzettamento non è arginabile ed ogni secessione prepara la successiva. Dopo vedremo come.

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