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Rabbia tunisina

Quindici anni. Al massimo venti. A lanciar pietre e bottiglie incendiarie, come ogni sacrosanta protesta sa fare. A respirare lacrimogeni e sfuggire cariche poliziesche, a rischiare botte per poi finire in una retata che ne blocca 632. Sono le note di tre notti di fuochi a el-Tadamen, Mnihla, La Manouba, suburbi di Tunisi. E a Kasserine, Sousse, Monastir, in un bel pezzo del Paese. 

Rabbia che si mescola alla protesta per un sistema rimasto eguale, incentrato sulla povertà e l’assenza di risorse, quello che i padri raccontano dell’epoca di Ben Ali. E che nel trambusto d’una Primavera araba che si diceva profumasse di gelsomini con le confuse promesse dell’islamismo di Ennahda, riproponeva un vecchio liberista, Caid Essebsi, a non cambiare nulla. Così il tempo s’è fermato fino al momento della sua dipartita, ultranovantenne. Lo si vedeva stringere mani ai potentati del mondo in visita di cortesia e affari, John Kerry, Houlin Zhao, ma quegli affari non aiutavano i due terzi della popolazione che vive lo spettro d’una disoccupazione da capogiro. Alcuni fratelli maggiori dei disperati di queste ore sono finiti anche a combattere nella Jihad, più esterna che interna, visto che la ‘guerra santa’ nel Paese ha lasciato spazio a una distensione fra partiti che s’erano ferocemente contrapposti. Ma questa coabitazione senza alternative per la povertà di molti ha solo irritato gli animi e i sondaggi odierni dicono che più della metà dei cittadini non crede in nessuna possibilità che la classe politica sollevi le sorti nazionali. Certo, ad altri fratelli del Maghreb è andata peggio: ai confinanti libici ridotti in guerriglia per bande dall’epoca della caduta di Gheddafi, e ora a scegliere fra due schieramenti che vantano il reciproco padrinaggio interessato di potenze mondiali; agli egiziani costretti a chinarsi all’ennesimo generale-presidente per non finire imprigionati senza tempo. Ma l’attuale presidente tunisino Kais Saied - un giurista conservatore scelto come elemento di compromesso fra la transizione filoccidentale, di cui Essebsi da consigliere dell’ex presidente Bourghiba s’era fatto portavoce, e l’islamismo rivendicativo di Ennahda - non può solo additare i ragazzi delle strade come vandali. Purtroppo per loro nessuno li guida, se non l’istinto di non poter far altro che guardare il Canale di Sicilia per fuggire verso chi non vuole accoglierli. Oppure scagliare la collera verso chi non sa che farsene di loro. Uno Stato che non ascolta, non programma, non sa e non vuole farlo. E soprattutto che vorrebbe non esistessero.

Enrico Campofreda

Questo articolo è stato pubblicato qui

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