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Quel bisogno di autogoverno

Negli ultimi anni si è parlato spesso, a volte con sufficienza, del concetto di “autodeterminazione”, termine che rappresenta una variegata serie di significati, un ginepraio in cui diviene impossibile giostrarsi, se non interpretando il termine a proprio piacimento.

Andiamo a prendere in considerazione il rapporto tra Stati e cittadini in merito al diritto di questi ultimi di disporre di se stessi e alla luce delle norme del diritto internazionale. Secondo queste ultime và fatto presente che gli Stati e non i popoli sono i soli destinatari formali delle norme in materia, mentre questi ultimi possono esserne al più i beneficiari, e che una distinzione, purtroppo o a ragione, va fatta tra i concetti di popolo, minoranza, popolazione indigena o gruppo insurrezionale… aspettarsi di ricevere qualcosa dalle istituzioni è pura velleità.

“Autodeterminarsi”, potrebbe anche essere un riferimento all’individuo come singolo, e quindi alla possibilità concessagli di esprimere la propria personalità senza restrizioni ed in tutti gli ambiti: quello politico, quello sociale, quello religioso, quello sessuale ma anche quello medico… ma non stringiamo troppo l’argomento, soprattutto non allontaniamoci da quello che mi preme.

Il termine autodeterminazione esprime l’azione a conseguire la creazione di un nuovo Stato sovrano indipendente, dotato di proprio esercito e di propria moneta, in genere legittimato dal principio etnico, nazionale, o religioso, attraverso la secessione da un’altra entità statuale. Un padre dell’autodeterminazione potrebbe essere il Presidente americano Thomas Woodrow Wilson. La proposta di Wilson venne concepita per sanare la situazione europea di quel dopoguerra, sui risultati non mi soffermo, non sarebbe cosa breve e neppure semplice. Il richiamo all’autodeterminazione ebbe in seguito successo come sostegno alle rivendicazioni indipendentiste connesse alla decolonizzazione, o a quelle sostenute da minoranze etniche o nazionali in presenza di scarso o nullo riconoscimento dei loro diritti. A questo proposito, possono essere citate le rivendicazioni separatiste ancora attive nei Paesi Baschi, nel Québec, nel Kashmir, in Tibet, nel Kurdistan. Queste tendenze alla frammentazione politica del mondo, riscontrabili anche all’interno di Stati democratici, come la Spagna, l’Italia, il Canada, oppure l’India, poste frontalmente davanti a delle “Istituzioni” difficilmente portano a risultati e sono contrastanti lo sviluppo del federalismo.

Preferirei concentrarmi sul concetto di “autogoverno” il quale si colloca nel quadro della democrazia e riguarda la protezione di interessi e culture autoctone espresse da regioni e comunità locali senza che sia messa in discussione l’unità dello Stato (non tanto per un valore in se stesso, ma per l’arcignità della sua autodifesa politica) e l’articolazione pluralistica della società. L’autogoverno poggia sul principio di sussidiarietà, sulla sovranità democratica degli elettori, sulla libertà di associazione tra cittadini e sulla libertà di unione tra istituzioni territoriali, sul dominio della costituzionale, può essere esercitato nell’ambito degli Stati decentrati o federali in applicazione del principio di sussidiarietà. Le leggi costituzionali di uno Stato prevedono spesso l’estensione o la riduzione orizzontale delle competenze di un centro di decisione, oppure il trasferimento verticale delle competenze tra autorità politiche di vario. Citiamo anche senza che abbiano troppo in comune tra di loro, ma perché sono casi reali, il Nanavut nel Canada settentrionale, la Devolution del Galles e alla Scozia.

Dunque, l’autogoverno è un concetto politico che si regge sui principi di sussidiarietà, solidarietà, cooperazione e coordinamento che sono tipici del federalismo, gli organi di vertice vengono formati attraverso la partecipazione della collettività, attribuendo a essa l’esercizio delle funzioni pubbliche in un determinato ambito territoriale, con l’esclusione di quelle relative ai rapporti con l’estero e la difesa il che consente la costruzione dell’unificazione politica dell’umanità, dalla comunità locale alla dimensione mondiale, nella pace e nell’osservanza della legge, attraverso l’esercizio del sovrano democratico del cittadino ai diversi livelli del potere organizzato, il tutto previsto (poi sarebbe da vedere quanto applicato) dalla Carta delle autonomie locali del Consiglio d’Europa, che è stata ratificata come legge interna in quasi tutti gli Stati membri dell’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e per la Cooperazione in Europa), tra cui anche l’Italia.

Ormai sono anni che “bazzico” nel web e fuori, uomini e movimenti che vogliono riscrivere la forma di questo Stato ne ho conosciute parecchi, più o meno la pensiamo in forma simile: Federalismo, Autonomia, Responsabilità, Partecipazione, tutti con molta voglia di unirsi per cambiare… il principio è giusto, condiviso, la strada intrapresa fino ad oggi invece errata. Si cerca di unire forze che arrivano dai quattro punti cardinali, piene di fantastiche idee, ma vuote di concretezza locale.

Io credo occorra, per abbattere il “leviatano”, radicarsi appieno (lo vogliono anche i princìpi dell’autogoveno) nei propri territori locali, governarne bene alcuni e poi utilizzarli quali modelli per un progetto federativo, magari di tipo municipale.

Liberiamoci da chi sta uccidendo, non più solo il nostro futuro, ma ormai anche il nostro presente.

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