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Quanta rovina e distruzione ancora può tollerare il cuore umano?

Guardo tutte quelle case, dimore, abitazioni, rosicchiate da vili scosse come un pezzo di pane raffermo dai topi ingordi, sconfessate nella loro voglia di essere difesa e riparo contro le insidie di questo mondo, materiali e morali; sventrate e sbudellate come una scrofa in tardo autunno; polverizzate e ridotte ad ammassi senza ordine e disciplina.

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Foto: Kostiantyn Liberov e Vlada Liberova, Pawel Pieniek, Oleg Petrasiuk, Finbarr O’Reilly, Mstyslav Chernov, Wojciech Grzedzinski, Pavlo Petrov, Serhii Hudak, Mykola Synelnykov

 Guardo tutte quelle piazze e corti, prima libere e spaziose, fantasiose nella veste, quadrata, rettangolare, circolare, poligonale, che si aprono nella trama altrimenti fitta di personaggi e pulsioni, e che ora son deserte, fregiate solo di relitti, unica specie a testimoniare. Guardo quella terra, le campagne e i fondi, erosi e consumati, finiti a poco a poco, ridotti al nulla per dispetto; offese e disonorate per il solo gusto di infierire. Guardo tutti quegli oggetti - una bambolina, un quadro, un piatto, una tovaglia ricamata - oggetti che per qualcuno sono niente, quisquilie, solo cose senza valore; per chi li custodisce in casa propria sono ritagli dell’anima, occorrenze, ricordo e foss’anche rimpianto, e che ora son dispersi, naufraghi alla deriva, salme di un avvenire infranto; spezzati, compromessi, arsi in un delirio di sterminio e sopraffazione. Guardo tutte quelle vite sfondate, una legione di croci su un campo inerme, asperità del marciapiede, carogne da strappare alle macerie come la malerba prima del raccolto. E mi domando quanta rovina e distruzione può tollerare il cuore umano. 

Quanto annientamento di persone e cose nella loro materialità ed essenza, indegnamente arbitrario. Quanto indebito oblio, prepotentemente addossato. Quante intime stragi e devastazioni, l’animo saccheggiando. A onorare la psicanalisi tali istinti si oppongono all’ispirazione vitale, la cui sopraffazione radica il sadico e masochista in una danza taurina e perversa, e nulla ha a che vedere con la forza e l’impeto di istanze naturali che pure abbattono. In esse è a mancare, benedetta sorte, quella ingombrante volontà che a oscurare è ogni essenza, e perciò son degne, già loro, di riguardo e considerazione. 

Invano risuonano nel mondo le parole di Akiba, oggi ottantenne, ex sindaco di Hiroshima, con le quali invita Putin e tutti i leader delle potenze nucleari a incontrare almeno uno dei sopravvissuti della tragedia: deformi, tormentati da gravissime malattie genetiche, sono a condurre una vita piena di sofferenze e disperazione - nessuno, dopo aver visto certe cose, può pensare di rifare la stessa cosa. 

Mai paghi, invece, conosciamo fin troppo bene il dramma della devastazione, della strage, dell’annientamento, le mutilazioni di anima e corpo, ce l’abbiamo dentro. Insieme alla voglia inappagabile di prevaricare. Ad oggi non abbiamo mai smesso di investire tempo, forze e denari nello sviluppo e nella realizzazione di oggetti e strumenti di ogni foggia per straziare, recidere, bruciare e razziare la vita di un altro eguale (e con la sua, la nostra), di affinare tecniche e addestrare menti per spegnere, soffocare e arrestare il suo soffio assai vitale. Le abbiamo viste certe cose, Mister Akiba, le abbiamo iniziate certe cose, le rivendichiamo, e le replichiamo, senza sosta e senza vergogna. L’unica speranza per noi è lei, seduta sulla sua panchina, pure dentro, che a guardare l’opera di un genio umano la domanda ripropone: 

quanta rovina e distruzione ancora può tollerare il cuore umano? 

 

Sabina Greco 

Questo articolo è stato pubblicato qui

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