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Quando la poesia si fa racconto: recensione di “Qui sono felici e non lo sanno” di Gianluca Caiazzo

Se fosse giusto un episodio, questo “Qui sono felici e non lo sanno” di Gianluca Caiazzo (Aletti, pp. 74, euro 12), andrebbe segnalato per una categoria non diffusa tra chi si cimenta con le lettere: la spontaneità intellettuale, sorella bistrattata della più nota onestà intellettuale. Se invece la raccolta di poesie fosse l’inizio di un percorso organico, di un corpo letterario compiuto, ne parlerei per ricchezza artistica. Mi riferisco alla ecletticità del repertorio, sia tecnico che sentimentale. In questo libro Gianluca riesce a spaziare un po’ ovunque, forte della libertà che gli conferisce l’assenza di fini precisi ed una vivace curiosità. Ce n’è per vari palati, per vari cuori, e per varie critiche. Inutile dire se un libro di poesie piaccia o meno: una sola buona, magari in un volume di cento sbagliate, potrebbe riscattare l’operazione intera. E qui non c’è una sola, di buona lirica. Dalla novella rimata di “La bomba inesplosa” ai quasi haiku de “Il nostro congedo” o “Vinorosso”, dall’impressionismo sussurrato della poesia che dà il titolo alla raccolta all’invettiva di “La bestemmia”, persino un tautogramma in “P” di echiana memoria.
 
Tra le altre, piace molto “Gli orologi hanno perso un colpo”, per immagini, chiarezza, scelte poetiche come “l’istante esatto in cui non puoi morire”. A volte la poesia si trattiene in un solo verso, magari separato dal componimento in cui è calata. Nella splendida “Constanz” l’ultima frase, “la forza sbadata di chi scatena tempesta”, ricorda istintivamente cento incontri, mille profezie, miliardi di ipotesi sperimentate. Come suggerisce Pavese, un buon libro è quello in cui trovi pensieri già pensati che trovano sulla pagina un suggello di conferma. E se è vero questo, allora quello di Gianluca è un buon libro senz’altro. Perciò merita verità: e dirò che convince meno quando, in alcune poesie, si vagheggia un ritorno alla natura, o all’essenza, questo forse un po’ già sentito. Nella raccolta c’è spazio per l’ironia, come nella divertente e verissima “Le verità piccole”, mentre si sentono echi di musiche frequentate (sicuramente De Andrè ne “Il ladro”, “La bomba inesplosa”), e letture, forse l’Auden di “Funeral Blues”, specie in riferimento a “Quando non ci sei” e “Perdere lei”.
 
Bellissimo il titolo di “Per ogni cosa che ho perso”, che praticamente chiude il percorso. Un testo da leggere più volte, ed ogni lettura può essere giusta: quella d’un fiato della prima volta, quella selettiva delle ulteriori. Perché più che una raccolta poetica, in fin dei conti, suona come una somma di racconti. Che ti fanno venire la voglia, come raccomanda l’introduzione, di addentrarti nell’universo di questo medico, esordiente nella letteratura ma non nella vita (ho messo apposta alla fine professione e “carriera artistica” perché contano poco).
 
Ti fanno venire voglia, per tornare a Pavese, mentre chiudi il volume, di essere amico dell’autore per chiamarlo, ogni tanto, e sentire come stanno i personaggi delle sue storie.

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