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Psichiatria e migrazione

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), da alcuni anni, definisce con il termine di Human Mobile Population, gli immigrati, i rifugiati, i richiedenti asilo, gli esuli, i lavoratori in transito, i viaggiatori, i turisti, cioè le persone che, a vario titolo, si spostano da un Paese all’altro. Secondo i dati dell’OMS, nel 2000 sono stati oltre 1 miliardo gli individui che almeno una volta sono usciti dai propri confini nazionali. In particolare gli emigranti in cerca di lavoro sono stati 135 milioni. Un serbatoio di disperazione in crescita: negli anni Ottanta erano 70 milioni

In questa popolazione le malattie psichiche sono fra le più diffuse a livello mondiale e proprio per questo motivo la Federazione mondiale per la salute mentale ha scelto di sottolineare questo tema nella giornata mondiale che ricorre il 10 ottobre.
Si discute molto oggi sull’opportunità e i rischi derivanti dall’inventare spazi specifici dove accogliere la domanda di cura e di aiuto da parte degli immigrati o delle loro famiglie, alle prese con conflitti psicologici e difficoltà comuni nella loro condizione e nelle vicende che solitamente caratterizzano l’esperienza della migrazione (separazioni, perdite, lutti, crollo dello status sociale, esperienze traumatiche, razzismo, sfruttamento, ecc.).

La psichiatria ha a che fare soprattutto con la cura, ma la cura non può essere soltanto farmacologica: è anche psicologica e sociale e dipende soprattutto dalla capacità di ascoltare, per cogliere quel colloquio interiore che ognuno di noi intrattiene con le voci e i silenzi della propria anima, anche quando ci si trova persi nelle pieghe più profonde della sofferenza psichica.



Risulta così evidente la necessità di dotarsi di nuovi strumenti culturali ed epistemologici, stante il perpetuarsi di un vuoto non solamente interpretativo, ma anche propriamente operativo per ciò che riguarda la modalità di utilizzo di esperienza della sofferenza. L’esperienza di lavoro nei servizi territoriali pubblici e privati fa incontrare quotidianamente non solo i casi cosiddetti più gravi, affetti da problematiche psicologiche/psichiatriche incompatibili con una normale vita di relazioni familiari, sociali, lavorative ecc., ma anche persone con disagi più lievi, persone che hanno famiglia, lavoro, cultura. Diventa necessario essere flessibili ed adattabili, non per proprio piacere, ma per la sopravvivenza quotidiana in una società competitiva ed escludente.

Quando un lavoratore, per motivi che rispondono esclusivamente a leggi produttive o di mercato, è declassato o non si vede riconosciuto nelle proprie attitudini, subisce, sul piano psicologico, nella sua configurazione identitaria, un vero e proprio trauma, spesso sottovalutato se non del tutto ignorato: l’identificazione lavorativa, l’autostima, il sistema delle sue motivazioni, l’organizzazione delle sue personali sicurezze vengono meno. Ciò crea una “situazione sociale marcata dal malessere del lavoro, dal timore di perdere il proprio posto di lavoro e non poter tornare ad avere più una vita sociale, e di dover impegnare la vita solo nel lavoro e per il lavoro, con l’angoscia legata alla coscienza di un’evoluzione tecnologica che non risolve le necessità sociali. È un processo che rende precario tutto il vivere sociale.”

Le sofferenze che accompagnano la malattia sono in parte una risposta alla malattia stessa, che, infatti, può causare paura, disperazione, senso di spossatezza, angoscia nei confronti del futuro e un senso profondo di inutilità e di impotenza. A questi stati occorre contrapporre un’amorosa sollecitudine, empatia e, se possibile, conforto e consiglio. Ma la sofferenza a volte può sollevare interrogativi sul significato della vita, del bene e del male, nonché del destino della persona - interrogativi comunemente considerati spirituali o filosofici, non medici. In una società dove il raggiungimento del benessere materiale sembra disegnare l’ultimo confine perseguito dall’uomo, occorre infatti che ogni cittadino si imponga una riflessione per rompere il silenzio e rivalutare l’esperienza della sofferenza psichica anche come occasione di evoluzione e di crescita. In questo senso va quindi rivisto anche il concetto stesso di disagio, rendendosi conto che lo stesso non si confina all’interno dell’individuo separato dal suo ambiente, ma interagisce in modo intersoggettivo con tutto ciò che gli sta intorno.

Nella popolazione immigrata la depressione può anche essere la conseguenza di circostanze legate alla decisione di lasciare il proprio paese di origine accompagnata dal disagio della nuova condizione e dalle barriere linguistiche e culturali che possono impedire la verbalizzazione di problemi emotivi con il rischio che sia percepita come una parte normale della vita di tutti i giorni.

L’antropologia della speranza deve perciò orientarci verso un’azione di ascolto e di cura che sappia consapevolmente situarsi accanto all’uomo sofferente che chiede non solo competenze, ma anche comprensione e solidarietà.

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