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Pomigliano, Marchionne e il pensiero unico liberista

Pomigliano, Marchionne e il pensiero unico liberista

 Come scrive Marco Revelli sul manifesto del 16 giugno, in condizioni di normalità l’accordo proposto da Marchionne ai sindacati su Pomigliano sarebbe rifiutato in partenza, perché «richiede la liquidazione di diritti indisponibili», «che nessun sindacato potrebbe “negoziare”, per il semplice fatto che non gli appartengono». Parliamo di diritti «costitutivi di una civiltà giuridica che trascende le parti sociali e gli individui», alcuni dei quali sono «sanciti costituzionalmente», come quello di sciopero, o «garantiti dalla legislazione ordinaria» (il pagamento dei primi tre giorni di malattia) o ancora «fanno parte di un livello contrattuale nazionale impegnativo per tutti i contraenti» (la «difesa del proprio tempo di vita da una gestione del tempo di lavoro drammaticamente soffocante e totalitaria»).
 
Di che cosa si discute allora a Pomigliano? Del fatto che le presenti non sono condizioni di normalità, perché siamo sottoposti a una legge vecchia e nuova, che va sconvolgendo e sostituendo il «modello giuridico, politico e sociale della modernità industriale». Ci troviamo davanti, ancora con le parole di Revelli, «la legge di mercato, nella sua dimensione ferina del “primum vivere”», la «darwiniana “lotta per la sopravvivenza”, applicata alle imprese, agli uomini e ai territori». «A Pomigliano è la verità della “globalizzazione” a materializzarsi nella forma più estrema del “prendere o lasciare”, che travolge ogni principio giuridico, ogni regolazione nazionale e ogni accordo sancito». Operai: né malattia né sciopero, o le Panda si faranno in Polonia!

 
Che cosa rispondere a chi segue questa logica? Stesso giornale, stesso giorno, qualche proposta prova ad avanzarla Guido Viale in un bell’articolo che si sforza di demolire l’assunto per cui «Non c’è alternativa» a Marchionne, al ricatto, ma soprattutto al «pensiero unico» liberista. Il “piano Marchionne”, del resto, è un’illusione (una truffa?). «Prevede che nel giro di quattro anni Fiat e Chrysler producano – e vendano – sei milioni di auto all’anno […]: un raddoppio di produzione». «Quello che Marchionne esige dagli operai, con il loro consenso, lo vuole subito. Ma quello che promette, al governo, ai sindacati, all’“opinione pubblica” e al paese, è invece subordinato alla “ripresa” del mercato». «Negli ultimi dieci anni […] di piani industriali la Fiat ne ha già sfornati sette; ogni volta indicando il numero di modelli, di veicoli, l’entità degli investimenti e la riduzione di manodopera previsti. Tranne l’ultimo punto, che era la vera posta in palio, degli obiettivi indicati non ne ha realizzato, ma neanche perseguito, nemmeno uno».

 
La contrazione del mercato europeo dell’auto è irreversibile. «L’alternativa», secondo Viale, «è la conversione ambientale del sistema produttivo – e dei nostri consumi – a partire dagli stabilimenti in crisi e dalle fabbriche di prodotti obsoleti e nocivi, tra i quali l’automobile occupa il secondo posto, dopo gli armamenti». Si tratta in pratica di «progettare, creare opportunità e investire» nelle fonti rinnovabili di energia, nell’efficienza energetica, nella produzione di «pale e turbine eliche e marine, di pannelli solari, di impianti di cogenerazione». «Poi ci sono autobus, treni, tram e veicoli condivisi con cui sostituire le troppe auto, assetti idrogeologici da salvare invece di costruire nuove strade, case e città da riedificare – densificando l’abitato – dalle fondamenta».


 
Dal momento che a fare queste cose non sarà il governo, Guido Viale suggerisce che la «conversione ecologica» dovrà essere costruita dal basso, «sul territorio». «Chiamando per cominciare a confrontarsi in un rinnovato “spazio pubblico”, senza settarismi e preclusioni, tutti coloro che nell’attuale situazione non hanno avvenire: gli operai delle fabbriche in crisi, i giovani senza lavoro, i comitati di cittadini in lotta contro gli scempi ambientali, le organizzazioni di chi sta già provando a imboccare strade alternative». «E poi brandelli di amministrazioni locali, di organizzazioni sindacali, di associazioni professionali e culturali, di imprenditoria ormai ridotta alla canna del gas […] e nuove leve disposte a intraprendere, a confrontarsi con il mercato, in una prospettiva sociale e non solo di rapina».

 
Un’ottica opposta, insomma, a quella del «pensiero unico», che – si diceva – non ammette alternativa a se stesso, e chiede «lacrime e sangue» alle vittime degli altrui appetiti: ai cittadini immeritevoli, ad esempio, di pagare una crisi che non hanno prodotto. Contro la politica dei tagli, che mortifica lo Stato sociale (e dunque, a mio avviso, il senso stesso dello Stato) è online una lettera di 116 economisti italiani, i quali indicano proprio nei tagli la causa della diminuzione della domanda e dei redditi e, viceversa, dell’aumento delle insolvenze e della speculazione. Occorre allora «imporre un pavimento al tracollo del monte salari», rafforzando i contratti nazionali, i minimi salariali, i vincoli ai licenziamenti e nuove norme a tutela del lavoro e dei processi di sindacalizzazione. I 116 non puntano il dito contro la Grecia (e le altre nazoni “deboli”: il Portogallo, la Spagna, l’Italia), ma piuttosto contro la Germania che, con la sua politica di «contenimento dei salari, della domanda e delle importazioni» e di «penetrazione nei mercati esteri», causa numerosi problemi ai propri partner europei.
 
I sacrifici piacciono invece a Bruxelles, che ha appena approvato i tagli che il governo italiano intende imporre alle regioni. Tagli che, per una volta, hanno messo d’accordo i 20 presidenti delle regioni italiane, da Formigoni a Vendola, passando per un Roberto Cota piuttosto tiepido, ma comunque disposto a firmare il documento contro la manovra dell’esecutivo. Sulle regioni, denunciano i 20 governatori, graverebbe oltre il 50% dei tagli, per una cifra di 4,3 miliardi di euro per il solo 2011. «C’è un rischio di incostituzionalità», ha dichiarato Formigoni, «perché alle regioni vengono tolte le risorse ma vengono mantenute le stesse funzioni».

 
Diciamolo con semplicità: una volta di più si tratta di “far cassa”, sfasciando senza remore quel po’ di welfare che in Italia è rimasto attivo, in memoria di un’epoca più civile.

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