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Politica, migrazioni: una disperata speranza

Sempre di più mi torna in mente questo motto di Carlo Michelstaedter 

di Gian Andrea Franchi

 

(Foto di Gian Andrea Franchi)

Mi sembra che indichi l’essenza del navigare nel mare sordido dei nostri tempi in cui non si intravvede un orizzonte; quell’orizzonte che, per oltre un decennio o poco più, ho creduto di intravvedere in anni ormai lontani e dei cui limiti mi rendo conto, senza tuttavia rinnegarlo.

Il rapporto fra capacità di immaginare un orizzonte progettuale e impegno concreto esperisce oggi uno scarto abissale.
La messa in crisi irreversibile dell’equilibrio geo-biologico degli ultimi 15.000 anni è ben oltre le capacità d’interventi che dovrebbero essere necessariamente collettivi e diffusi, in un mondo dominato invece da un capitalismo senza freni, che sta gestendo una crisi come quella del Covid19, dovuta oltretutto a spillover, in termini di ancora più aggressiva autoaffermazione.

Per un uomo della mia generazione, che ha cominciato un’attività politica nella seconda metà degli anni Sessanta, entrando nel PCI per poi uscirne nel ’68 e ha in seguito vissuto intensamente nel mondo della cosiddetta sinistra radicale, oggi riesce difficile persino comunicare una così lunga esperienza, oltre che raccordarla a un tempo così diverso.
In primo luogo, oggi non esiste più, in Italia ma anche altrove (almeno così mi sembra) un’area politico-sociale sufficientemente significativa, diffusa in modo da poter incidere anche in minima parte nei rapporti di potere.

Penso all’Italia, dei tre movimenti fondamentali degli anni ‘60-’70 – il movimento operaio, il movimento degli studenti, il movimento femminista (nell’ordine della mia esperienza). Il primo è scomparso per disintegrazione della classe operaia in quanto classe politica e non solo sociologica. Il secondo era un movimento dall’impostazione generazionale legato quindi a una particolare situazione storica. Del movimento femminista rimangono oggi significative aree di movimento, gruppi e centri cultural-politici, ma con scarsa capacità d’influenza sociale oltre una cerchia abbastanza ristretta.

I gruppi e collettivi residui che fanno ancora riferimento a una tradizione di tipo marxista (o anche, in misura assai minore, anarchica) si sono estremamente ridotti e frazionati, in grado di svolgere soprattutto attività prevalentemente culturali e, sul piano sociale, locali.

L’unica attività politica collettiva dotata di notevole continuità e aderenza sociale, limitata però a una situazione specifica, anche se con più vasta risonanza, mi sembra il Movimento No tav.
Il variegato movimento ambientalista internazionale agisce in prevalenza a livello d’opinione: del tutto incapace di incidere in qualche misura su rapporti di potere che sono insieme mondiali e capillari e in grado di catturare frammenti di soggettività in maniera sempre più efficace soprattutto per mezzo della tecnologia elettronica, ormai indispensabile, divenuta necessariamente il principale strumento di comunicazione anche di chi si oppone ai dominanti.

In tale desolante contesto, sono apparsi, verso il 2014 i nuovi migranti.


La loro caratteristica è di essere migranti-profughi (mi riferisco alla Rotta balcanica, di cui ho esperienza diretta, ma anche all’Africa), provenienti cioè da vastissime e popolose regioni del mondo in cui la geopolitica delle potenze occidentali e satelliti (ma anche di Cina e Russia), sta producendo l’impossibilità di vivere in maniera tollerabile. Basti pensare all’Afghanistan, dove milioni di bambini rischiano di morire di fame: Afghani, insieme a Pakistani, sono i più numerosi fra quelli che riescono ad arrivare qui a Trieste.

Si è aperto, in tal modo, un nuovo campo d’intervento politico, con caratteristiche molto diverse rispetto a quello che conoscevo fin dai lontanissimi anni Settanta, ma anche dopo: sorge, infatti, necessariamente, dai bisogni elementari del corpo, i bisogni della sopravvivenza – curare, nutrire, vestire.
Si tratta di un approccio piuttosto estraneo alla cultura della sinistra sociale radicale degli anni’70. Più familiare alla cultura cattolica, in cui esiste un’importante tradizione di intervento sociale – basta pensare a don Milani e a tanti preti intensamente impegnati nel sociale. Di conseguenza, è più facile trovarsi ad agire con attivisti a sfondo religioso.

Escludendo, ovviamente, un agire puramente umanitario, si tratta allora di tentare un impegno politico, ma in quanto ‘convocati da una situazione concreta’ (Benasayag), in alternativa e in opposizione allo stato di cose presente, praticando con fermezza una prospettiva di relazioni personali e collettive, basate sulla cura reciproca, non ideologicamente proiettata in un futuro immaginario, ma da costruire giorno per giorno partendo dal concreto della situazione in cui ci troviamo a vivere.

Oggi, l’azione politica non si manifesta più come una narrazione che progetta un futuro a partire da un immaginario e un pensiero strutturati, legati a una tradizione intessuta di lotte, che in passato aveva il suo centro di forza principalmente (non solo) nella classe operaia; ma come una resistenza che, giorno dopo giorno, genera legami di solidarietà, a partire dal punto in cui si trova a vivere. In tale contesto, fondamentale è il rapporto di cura per l’altro, inteso come centro attivo, vivificante, della relazione sociale.

Ciò non significa buttar via quella narrazione e quella tradizione, ma riarticolarle radicalmente, in un contesto storico assai diverso, irreversibile segnato dalla devastazione biologica e geologica effetto della violenza senza freni dell’Economia di mercato.
Bisogna partire dall’oggi e dal qui, dal luogo sociale in cui si vive e dalla propria quotidianità, dal centro della propria vita di tutti i giorni, dalla propria esperienza di vita sociale per estendersi reticolarmente più che si può, senza disconnettersi dalla concretezza dell’intervento: metodo induttivo e non più deduttivo.

Tutto ciò rimanda anche all’importanza di mettere in discussione se stessi: le proprie emozioni, le proprie abitudini. Si tratta di camminare, quindi, sempre su un duplice sentiero, sociale e personale, ciò che implica temporalità differenti: ulteriore elemento di difficoltà.

La sottovalutazione del personale è stato un errore fondamentale nel passato: la cappa protettiva dell’ideologia spesso nascondeva le problematiche personali, rendendo superficiale l’adesione a pratiche trasformatrici, come si è visto in seguito. Il movimento o piuttosto i movimenti femministi, che ne hanno invece compreso l’importanza, non sono riusciti a correggere tale sottovalutazione, sotto la spinta corrosiva dell’Economia.

Le problematiche soggettive sono una delle questioni che ci stanno di fronte in un contesto in cui i dominanti, mediante la tecnologia elettronica, controllano in maniera radicale la maggior parte delle possibilità di comunicazione. Per il mio tipo d’attività, con i migranti, è fondamentale Facebook, di cui mi è ben chiara la funzione imprenditoriale e di potere. Ciò introduce una sottile dimensione di angoscia nella pratica comunicativa quotidiana: da una parte sono in grado di diffondere ciò che faccio e ciò che desidero, dall’altra sono dentro un sistema di potere e profitto che mi osserva, ma anche agisce su di me, su di noi. Sono consapevole che ciò produce effetti sulla mia soggettività, sul mio rapporto con me stesso-e-con-altri, modificando il mio comportamento, anche in modi che vanno oltre la mia comprensione.

La dimensione pandemica ha poi portato ad un ulteriore rilancio della comunicazione elettronica, anche in settori fondamentali come la scuola, frapponendo molteplici barriere fra i corpi, mediante, fra l’altro, tutta una serie di passaporti sanitari interni, peggiorando ulteriormente il rapporto fra Stato e cittadini: uno Stato sempre più autoritario – ma in modi ben diversi dal vecchio autoritarismo di stampo fascista perché dovuto al suo legame ombelicale con l’attuale Regime dell’Economia – e cittadini divenuti sempre più passivi.

Negli anni ’60-’70 del Novecento, la comunicazione era molto più lenta, fortemente legata agli incontri diretti: sappiamo che la forma della comunicazione modifica anche il contenuto. Esistevano allora un’opposizione sociale, un immaginario ed un tessuto narrativo diffusi che, pur nelle differenze e nelle divergenze anche fortissime, aveva creato un territorio culturale e sociale comune, anche emotivo.

Non lo dico nostalgicamente: ne ho ben presenti i gravi limiti. Rimanda, inoltre, a un tempo storico definitivamente passato.
Ma, la differenza radicale, nel senso letterale della parola, fra la situazione politica attuale e quella degli anni ’60-’70 del secolo scorso va al di là della storia umana. Siamo dentro un tempo molto più vasto di geostoria, per cui si è aperto un orizzonte che non riusciamo nemmeno a immaginare, se non nei termini della fantascienza o della letteratura o filmografia del disastro, e quindi non riusciamo a progettare, ma in cui bisogna pur camminare, anche politicamente.

In tale contesto, l’unico modo d’azione che riesco a immaginare e praticare è, come accennavo prima, quella che nasce dall’esperienza diretta di situazioni concrete, che abbiano, però, una valenza etico-politica generale: oggi, la ‘realtà’ della nostra condizione di vita sulla terra, si legge, ad esempio, sui corpi dei migranti che bussano tutti i giorni alle nostre porte.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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