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Per Fortis il debito pubblico non è un problema. Possiamo sempre socializzare la ricchezza privata

 

In un editoriale pubblicato da ilSole24Ore, il professor Marco Fortis tenta di rassicurare sulla solidità del nostro paese riguardo la crisi di debito dell’area euro, basandosi su quelli che definisce “indicatori oggettivi”. Proviamo anche noi ad analizzarli, con lo scetticismo che ci coglie ogni volta che sentiamo pronunciare il termine “oggettivo”.

Si comincia con la ricchezza finanziaria netta delle famiglie, che Fortis definisce “il polmone finanziario” di un paese. Dopo aver bacchettato quanti perseverano a non voler capire la fondamentale funzione di questo indicatore, che surclasserebbe anche il Pil “per capire la sostenibilità finanziaria di una economia nazionale” (sic), Fortis fornisce un esempio palmare di ciò che intende:

«Se anche volesse, la Grecia oggi non potrebbe nemmeno introdurre un’imposta patrimoniale per risanare i propri conti statali perché il patrimonio dei greci si è semplicemente dissolto e non c’è più nulla da tassare ma solo spesa pubblica da tagliare. L’Italia ha invece il più alto rapporto tra ricchezza finanziaria netta delle famiglie e Pil in Europa, di gran lunga davanti a Francia e Germania. Ma molti (anche in Italia) lo ignorano»

Allegri, quindi. Se giungeremo al momento dirimente, avremo pur sempre la ricchezza finanziaria netta delle famiglie su cui applicare una imposta patrimoniale “per risanare i propri conti statali”. Pronto, dottor Bechis? Che dice, lo facciamo un bel titolino, a questo soggetto?

 

 

Secondo indicatore “oggettivo” della nostra solidità, sempre secondo Fortis, sarebbe il debito pubblico estero, espressione criptica che presumiamo si riferisca alla porzione di debito pubblico detenuta da non residenti. Anche qui, per Fortis siamo a cavallo: ci sono relativamente pochi sottoscrittori non residenti dei nostri titoli di stato. Sono “solo” 837 i miliardi di euro in Btp e Cct acquistati dagli stranieri, contro i 978 miliardi della Germania ed i 1037 della Francia. Abbiamo una notizia per Fortis, non prima di aver premesso che simili comparazioni di solito si fanno in rapporto al Pil e non al valore assoluto dello stock di titoli: quegli 837 miliardi sono pur sempre quasi il 50 per cento dello stock complessivo di debito pubblico italiano. Che accadrebbe se i non residenti si liberassero dei nostri titoli pubblici, o non li rinnovassero alla scadenza? Ecco la risposta di Fortis:

«L’unico cavaliere bianco che in ultima istanza può venire in soccorso ai governi è il sopracitato stock di ricchezza finanziaria netta delle famiglie»

Se pensate che questa sia la reiterazione del concetto di cui sopra (la patrimoniale implicita), siete nel giusto. E Bechis ancora non risponde, strano.

Vi facciamo grazia del terzo punto, che altro non è che i primi due visti da differente angolo visuale. Quando hanno spiegato la multicollinearità Fortis era probabilmente altrove. Ma il Nostro prosegue indefesso, e giunge al concetto di debito aggregato, dato dalla somma di debito pubblico e debito privato. Sappiamo che il secondo è significativamente ridimensionato sommando agli asset finanziari delle famiglie anche quelli immobiliari. Giusto, come avevamo fatto a scordarlo? Nel 1992 Giuliano Amato in effetti applicò anche una imposta straordinaria sugli immobili. Siete certi che Bechis non abbia cambiato numero di telefono?

Sul punto 5, debiti delle famiglie, vedi il punto 4 ma anche il 3 , il 2 e l’1. Noi italiani abbiamo solo 21.800 dollari di debito medio per ogni adulto. Prendiamone atto. Ma un dato di tendenza non lo abbiamo? Forse da quello riusciremmo ad inferire che quell’indebitamento tende a crescere al passare del tempo. Ma transeat. Il punto 6 è interessante, perché ci segnala che l’Italia è una socialdemocrazia nordica, avendo una ricchezza immobiliare e finanziaria “ben distribuita e non concentrata in poche mani”, come indicato (sempre secondo Fortis) da “indici di equidistribuzione come la ricchezza mediana”. A naso ci verrebbe da ipotizzare che l’Italia non è esattamente un paese a basso livello di diseguaglianze, né nel reddito né nella ricchezza, ma cercheremo dati al riguardo. Anche se forse al posto della ricchezza mediana è preferibile usare l’indice di Gini.

Andiamo avanti. Punto 7, “bilancio primario”:

«Secondo i dati consuntivi e previsionali della Commissione Europea (non del governo italiano), nel quadriennio 2008-2012 l’Italia si caratterizza per il miglior bilancio primario pubblico (una media dell’1,5% del Pil) davanti alla stessa Germania (0,4%). Tutti gli altri paesi sono in disavanzo e i più sotto pressione sono Irlanda, Grecia e Spagna»

Buona notizia. Ma mai dire avanzo primario se non ce l’hai nel sacco, anche se lo dice la Commissione europea. Anche perché l’Italia nel 2009 aveva un deficit primario pari allo 0,5% del Pil, e non ci sembra che le cose siano drammaticamente migliorate, visto l’andamento esangue della crescita. Già, la crescita, la variabile reddituale che l’approccio “patrimonialista” di Fortis si ostina a lasciare fuori dall’equazione.

Il punto 8 si commenta da solo:

«Germania e Italia hanno i più bassi tassi di disoccupazione. I più alti sono quelli di Spagna, Irlanda e Grecia»

Ottimo, lo diremo a tutti i cassintegrati straordinari ed in deroga, ne saranno felicissimi. E lasciamo perdere il tasso di inattivi: data la premessa, ci attendiamo un’esplosione di Irpef, state pronti. Il punto 9 mostra che le banche italiane

«…sono di gran lunga le meno esposte verso Grecia, Irlanda e Portogallo (per un totale di soli 26 miliardi di euro nei tre paesi). Quelle più esposte sono le banche tedesche (213 miliardi) e francesi (142 miliardi)»

Wunderbar. Le banche italiane però sono esposte a quelle tedesche e francesi, che sono esposte a quelle greche, portoghesi e spagnole. E’ la Fiera dell’Ovest. Le banche italiane hanno già i loro problemi con le sofferenze su crediti alle imprese, a cui ora rischiano di aggiungersi anche quelle delle famiglie sui mutui. Peraltro, se le nostre banche sono considerate fragili o comunque non robuste un motivo ci sarà, che dite?

Il decimo punto rottama indicatori come il costo del lavoro per unità di prodotto ed il tasso di cambio reale, usati in tutti i modelli previsivi ed analitici in giro per il mondo. Non servono, suggerisce Fortis, perché la verità è che

«(…) la vera competitività si misura sui mercati più difficili, non sul mercato interno europeo che ormai è un grande mercato comune. I fatti ci dicono che, se escludiamo l’energia, l’Italia (con 38 miliardi di euro nel 2009) è seconda nella Ue a 27 solo alla Germania (107 miliardi) per surplus commerciale con i paesi extra Ue»

Nessuno dubita di questo dato, ma (anche qui) un trend in termini di incidenza sul Pil era davvero così difficile da recuperare? O forse non serviva, perché avrebbe fatto rientrare dalla finestra i concetti di competitività usciti dalla porta. E peraltro, Fortis dovrebbe sforzarsi di comparare i trend dell’export a quelli dell’import, sempre al netto dell’energia. In quel modo avrebbe un riscontro indiretto dell’evoluzione delle nostre ragioni di scambio. Ma anche no, visto che da quelle si tornerebbe a scomode inferenze circa l’evoluzione della nostra competitività. I valori assoluti sembrano essere la passione del vicepresidente del comitato scientifico (e del consiglio di amministrazione e del consiglio di indirizzo) della Fondazione Edison, tanto cara a Giulio Tremonti.

Parlando seriamente, nei limiti in cui è possibile esserlo, Fortis segue pedissequamente la linea “patrimonialista” tremontiana, o forse ne è l’ispiratore: esistono ampi asset delle famiglie a garanzia (implicita ma anche esplicita, viste le argomentazioni utilizzate) delle passività pubbliche. L’approccio Fortis-Tremonti, centrato sullo stato patrimoniale, ignora completamente il versante del conto economico, cioè la crescita. Che continua a mancare. Come ha constatato giorni addietro Mario Draghi, oltre al rigore del bilancio “è fondamentale la crescita: crescendo si pagano i debiti”. Oppure i debiti, nella visione del mondo di Fortis, si pagano compensandoli con la ricchezza delle famiglie. Un “polmone finanziario” prossimo all’enfisema, per non dire all’embolia.

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