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Paese che vieni usanza che ti assolve

Anche nei tribunali italiani si citano differenze culturali e religiose per giustificare comportamenti lesivi in famiglia, come per il recente caso di un cittadino del Bangladesh imputato per maltrattamenti. La responsabile iniziative legali dell’Uaar Adele Orioli analizza il fenomeno sul numero 6/2023 di Nessun Dogma

 

«Si deve tenere conto delle particolari impronte culturali ed etniche dell’imputato, che è un sardo». Così argomentava un giudice tedesco anni fa nel concedere le attenuanti a tal Pusceddu, condannato a sei anni per violenza sessuale continuata nei confronti della sua compagna (lituana, come se facesse qualche differenza).

Proseguiva il togato: «Il quadro del ruolo dell’uomo e della donna, esistente nella sua patria, non può certo valere come scusante ma deve essere tenuto in considerazione come attenuante». La sua patria al momento e con buona pace degli indipendentisti è l’Italia, dove in effetti il patriarcato godrà anche di buona salute ma anche dove, ad esempio, il vincolo di coniugio è un’aggravante delle violenze sessuali, non certo un’attenuante.

A ogni modo all’epoca si levarono sdegnate proteste che però miravano principalmente a riabilitare l’orgoglio isolano e peninsulare, in un impeto di fierezza insolitamente e unitariamente patriottica (che lo stupratore sia italiano, non solamente sardo!) più che a mettere il dito sulla pericolosità estrema delle giustificanti culturali e religiose all’interno di un sistema di diritto che voglia dirsi compiutamente garante dei diritti, almeno quelli basilari, delle persone che da questo diritto vengono disciplinate e giudicate.

Il fatto che una “cultura” – in realtà spesso precetti religiosi o di religiosa origine e applicazione – preveda comportamenti lesivi della dignità, libertà, integrità psicofisica altrui non può essere considerato motivo di scusa morale o di scusante giuridica, al pari di come non lo è ad esempio agire in base a convinzioni razziali. O almeno non dovrebbe.

E invece anche a parti inverse, dove è il tribunale a essere italiano e l’imputato bengalese, come nel caso di recente finito nell’occhio del ciclone. A Brescia infatti il pubblico ministero, la pubblica accusa insomma, non il difensore di parte, ha chiesto l’assoluzione dal reato di maltrattamenti coniugali fisici e psicologici di un cittadino del Bangladesh denunciato dalla cugina divenuta sua moglie a seguito di nozze combinate in patria.

Il comportamento dell’uomo, solito malmenare, insultare e minacciare la consorte che aveva dovuto interrompere gli studi e che veniva di fatto segregata in casa, sarebbe infatti per la pubblica accusa «frutto dell’impianto culturale e non della volontà di annichilire e svilire la coniuge». Ah beh, allora tutto a posto, non è colpa sua, è che lo disegnano culturalmente così.

Non c’è limite al peggio però e infatti… Sarebbe, sempre per l’illuminato requirente, a ben guardare quasi colpa della moglie stessa che aveva «inizialmente accettato» i valori di cui l’uomo «si era fatto fieramente latore», per poi, ingrata, giudicarli «intollerabili perché cresciuta in Italia e con la consapevolezza dei diritti che le appartengono». Insomma, ce l’aveva fatto credere e incredibilmente dopo anni di botte si è persino permessa di cambiare idea.

Poi, nel riempirsi la bocca di parole come femminicidio o relazioni tossiche, ci si continua a chiedere stupiti come mai le donne attendono ancora l’arrotino invece di andare a denunciare violenze e soprusi. In questo caso poi persino l’ineccepibile emancipazione di una persona che dal contesto italiano ha saputo avere contezza dei propri diritti viene mortificata in una sorta di determinismo da buon selvaggio in sincretico approccio tra Zola e Rousseau.

A ogni modo nonostante la giusta eco di sdegno che ha portato anche a interrogazioni parlamentari memori della non troppa lontana epoca del delitto d’onore, il giudice ha sposato appieno la tesi della pubblica accusa e ha prosciolto l’imputato «perché il fatto non sussiste». O meglio, per chiosare prosaicamente, sussisterebbe pure, se non fosse che a circa 8000 km, in Bangladesh, è diffusa l’idea dell’inferiorità femminile rispetto all’uomo signore e padrone. Idea che sembra non dispiacere nemmeno qui.

Adele Orioli

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