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Operazione “Guardiano delle Mura”, cosa sta succedendo in Palestina? Intervista a Romana Rubeo – Parte I

Ore critiche, specialmente nella Striscia di Gaza. L’Operazione “Guardiano delle Mura”, l’escalation militare portata avanti in questi giorni dall’esercito israeliano, sta mettendo a ferro e fuoco la Palestina. Di questo ne parliamo con Romana Rubeo, giornalista, traduttrice e redattrice di Palestine Chronicle.

di Lorenzo Poli

 

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Dove hanno origine questi scontri? Cosa è successo settimana scorsa?

Questa ultima escalation, in particolare, nasce dai fatti di Sheikh Jarrah, quartiere di Gerusalemme Est occupata che in questi giorni è il principale obiettivo della sistematica operazione di pulizia etnica portata avanti da Israele.

Dovendo ricostruire la mera cronaca, ventotto famiglie palestinesi che vivono in quel quartiere sono soggette a un provvedimento di sfratto in favore delle associazioni di coloni ebraici, che si sentono legittimati ad acquisire i diritti di proprietà su quelle abitazioni in virtù di un sistema di norme e provvedimenti emanati dallo Stato di Israele ma ritenuti illegittimi sotto il profilo del diritto internazionale. Gli abitanti del quartiere di Sheikh Jarrah stanno cercando in ogni modo di resistere allo sfratto, all’allontanamento forzato, a questa nakba permanente, in cui l’esproprio e il sopruso sono parte della quotidianità. Nella giornata del 2 maggio, data fissata dalla Corte Suprema per l’espulsione di almeno quattro famiglie, molti palestinesi sono accorsi nel quartiere per solidarizzare e resistere al provvedimento.

Questo ha scatenato una repressione feroce da parte delle autorità israeliane, sia ufficialmente, con la polizia impegnata in operazioni di sgombero e detenzione degli attivisti, sia ufficiosamente, con gruppi di coloni estremisti che marciavano sulla città di Gerusalemme, entravano provocatoriamente nel quartiere di Sheikh Jarrah, allestivano “uffici” improvvisati in strada per il loro beniamino, Itamar Ben-Gvir, membro della Knesset (parlamento israeliano), espressione delle forze estremiste e kahaniste.

Al-Aqsa diventa un campo di battaglia e la Spianata delle Moschee va in fiamme. Cosa è successo di preciso?

Come se quello che stava accadendo a Sheikh Jarrah e per le strade di Gerusalemme non fosse sufficiente, nell’ultimo venerdì di Ramadan le forze israeliane hanno letteralmente invaso la Spianata delle moschee e la Moschea di Al-Aqsa, dove migliaia di fedeli erano raccolti in preghiera, facendo registrare centinaia di feriti tra i palestinesi.

Oltre a gas lacrimogeni, ordigni di piccolo calibro e colpi di arma da fuoco, i nostri corrispondenti da Gerusalemme ci hanno descritto anche scene oltraggiose, come l’incendio di copie del Corano, nel terzo luogo sacro dell’Islam e durante il mese sacro del Ramadan.

Il lancio delle granate ha determinato anche un incendio nei cortili di Al-Aqsa, fortunatamente contenuto dai palestinesi presenti. Molti si sono scandalizzati alla vista dei coloni israeliani intenti a festeggiare mentre le fiamme si alzavano sulla Spianata delle Moschee, ma purtroppo – per chi si occupa quotidianamente della cronaca da quei territori – questa costante espressione di odio è la triste routine quotidiana.

Con l’inizio dell’Operazione “Guardiano delle Mura”, i media mainstream hanno parlato di una controffensiva di Israele ai razzi di Hamas. E’ realmente così?

Uno dei modi più semplici per alterare la narrazione dei fatti è scegliere di raccontarli a partire da un determinato momento, omettendo ciò che è accaduto prima. Se si sceglie, dunque, di iniziare il racconto di questi eventi partendo dal lancio di un razzo dalla Striscia di Gaza sotto assedio, si sta compiendo un’operazione precisa di distorsione della realtà.

La mobilitazione su Gerusalemme era iniziata ben prima, se dobbiamo essere onesti, non era mai finita. La stessa presenza dei palestinesi, e dei palestinesi gerosolimitani nello specifico, è percepita da Israele come una “minaccia esistenziale”.
Questo comporta operazioni di ‘ebraicizzazione’ della città, esproprio di interi quartieri, campagne di arresti arbitrari, divieto di accesso ai luoghi sacri e tutta una serie di angherie e soprusi su base quotidiana. I fatti di Sheikh Jarrah e di Al-Aqsa, in questo contesto, non sono che la punta di un iceberg. Sheikh Jarrah non è l’eccezione, ma la norma. Il recente rapporto di Human Rights Watch, che segue quello dell’organizzazione israeliana B’tselem, illustra un quadro di apartheid sistematica portato avanti da Tel Aviv, nella più completa impunità.

Tutto questo, tra l’altro, avviene in un contesto che vede anche un forte vuoto di rappresentanza per i palestinesi, con un’Autorità Nazionale più impegnata a compiacere la comunità internazionale che a rappresentare il suo popolo, una ANP che cancella le prime elezioni in 15 anni facendo, di fatto, proprie le ragioni dell’occupante.

La solidarietà espressa da Gaza e la scelta della resistenza palestinese di lanciare un ultimatum su Gerusalemme sono conseguenze dirette di questo quadro politico e sociale, che fa da sfondo e non può essere tralasciato.

A mio avviso, questa operazione non ha il carattere di una “controffensiva”, ma è frutto di una scelta precisa del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che si trova in uno dei momenti più difficili della sua vita politica. Israele sta vivendo uno stallo istituzionale, il suo primo ministro è coinvolto in vari processi e non riesce a formare un governo; le recenti elezioni di marzo continuano a restituire l’immagine di un Paese spaccato e profondamente orientato verso tendenze estremiste. Netanyahu aveva tutto l’interesse a generare una “emergenza” nazionale da poter gestire, accarezzando le pulsioni più estremiste e forzando la mano con i palestinesi, come ha fatto più volte in passato. Probabilmente, però, non si aspettava una reazione tanto forte e determinata.

Ad oggi, a quale numero di vittime siamo arrivati, dopo tre giorni di bombardamenti israeliani?

Purtroppo, il numero di vittime sul fronte palestinese è in continuo aumento. Secondo gli aggiornamenti del Ministero della Salute di Gaza ci sono circa 83 morti, di cui 17 bambini, e circa 480 i feriti. Tra questi, molti, troppi, sono bambini.

Come è la situazione attuale? Credi che questa nuova operazione militare sia stata pensata prima, basandosi sulle provocazioni ad Hamas?

Al momento, la Palestina è in fiamme, letteralmente in fiamme. Credo che, quando Netanyahu ha innescato questa crisi, non si aspettasse la reazione del popolo palestinese, che ha superato le divisioni settarie sul campo, che ha superato la frammentazione politica e territoriale operata sulla Palestina negli anni ed esacerbata dagli Accordi di Oslo.

Quello che vediamo oggi è un popolo palestinese unito, a Gaza, come in West Bank, come nella Palestina storica, attualmente Israele, dove i palestinesi con cittadinanza israeliana vivono una forma di apartheid persino più subdola, come denunciato dai rapporti delle ONG sopra citati. Ovviamente, i palestinesi soffrono enormemente e sono il bersaglio finale di queste politiche crudeli e scellerate. Gaza, ad esempio, che viveva già una situazione di sostanziale invivibilità – come denunciato a più riprese dalle Nazioni Unite – ora si trova anche a fronteggiare continui bombardamenti e una crisi umanitaria senza precedenti.

Ma i palestinesi stanno dimostrando che, pur nell’isolamento internazionale e nel vuoto di rappresentanza che purtroppo sono costretti a subire, non hanno alcuna intenzione di vestire solo i panni delle vittime. E soprattutto, non hanno alcuna intenzione di cedere il loro diritto all’esistenza su quelle terre, quello stesso diritto che Israele sta apertamente cercando di sottrarre.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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