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Oltre il Multiculturalismo…

Nel libro di Pierpaolo Donati, “Oltre il multiculturalismo. La ragione relazionale per un mondo comune” (Laterza, marzo 2008), si apre una discussione critica sul tema più di moda in questi ultimi anni: l’apertura senza frontiere al multiculturalismo nelle società aperte occidentali.

Secondo Donati (docente di Sociologia all’Università di Bologna e presidente dell’Associazione Italiana di Sociologia), il limite principale del multiculturalismo (dal punto di vista epistemologico, morale e politico), è la mancanza di relazionalità fra le culture che vuole istituzionalizzare: è cieco (in senso affettivo, cognitivo e morale) di fronte alla cultura come fatto relazionale. Nel multiculturalismo le relazioni vengono neutralizzate attraverso il principio liberale della tolleranza e quello socialista di inclusione politica, che, siccome accentra l’attenzione sulla libertà e l’uguaglianza, dimentica i rapporti di vera solidarietà, reciprocità e fraternità.

Quindi il multiculturalismo male applicato, quando viene adottato dai Paesi europei, con tradizioni culturali religiose e civili più omogenee e stabili nel tempo, può generare anche effetti molto negativi. Può creare frammentazione sociale, separatezza delle minoranze e relativismo culturale acritico e asettico che disorienta l’opinione pubblica: pensiamo all’infibulazione tradizionale permessa in alcuni paesi europei (quando basterebbe una “foratura” simbolica) o alla “libertà” di accattonaggio e di furto per i figli minori dei Rom (che li condanna a una vita senza ritorno).

Ricordiamoci che gli Stati Uniti d’America sono un mix di innumerevoli fedi, ma è un’unica cultura nata e basata sull’immigrazione e le libertà civili ed economiche (cioè la maggioranza dei cittadini sono immigrati o figli di immigrati di prima, seconda, terza o quarta generazione). Anche se le recenti ondate migratorie dei “Latinos” sono più difficili da integrare, perché i “Latinos” tendono a concentrarsi su aree circoscritte, fanno molto fatica ad apprendere le lingua inglese, non praticano i matrimoni misti, e non intendono la proprietà privata, l’abitazione e la carriera come il “tradizionale” stile di vita americano. Quindi si sta creando una società americana disarticolata in due realtà popolari con due culture e lingue che hanno molta difficoltà a comunicare tra di loro (Samuel P. Huntington, 2005a).

Una soluzione potrebbe essere quella di ricercare una reale comunicazione interculturale, incoraggiando la mediazione e la negoziazione delle differenze culturali nel rispetto della dignità umana e dei diritti delle donne, dei bambini e delle minoranze.

Bisogna saper riconoscere all’Altro la comune umanità e voglia di adattamento ad una cultura che deve essere basata sull’evoluzione delle comunicazioni attraverso la “ragione relazionale” che deve portare sulla scena le ragioni delle relazioni, degli individui e della società e deve connettere e far operare anche i simboli ideativi e gli aspetti irrazionali (Donati). Bisogna quindi seguire una pista interculturale dove le diverse identità si percepiscono e partecipano reciprocamente grazie ad alcuni elementi comuni. Ma anche l’interculturalità ha un paio di problemi: “primo, non tutte le culture vedono questi valori; secondo, gli individui hanno capacità assai diseguali nell’andare oltre i limiti della propria cultura” (Donati). Se nelle culture tradizionali l’individuo ha un grado di libertà molto minore nei confronti delle istituzioni ed è quindi un prodotto della società, nella cultura occidentale la persona è un’identità “presociale che socializza se stesso sulla base delle sue interiori propensioni, preferenze, opzioni private, usando le relazioni sociale (la società) come sue proiezioni…” (Donati). E spesso sono le differenze nei rigidi valori religiosi che creano i problemi.

Ma veniamo ai problemi pratici: in Francia la legge impedisce alle ragazze musulmane di portare il velo islamico a scuola e questo crea un conflitto nelle ragazze che non sanno se essere delle buone cittadine o delle buone musulmane. La crisi può essere dolorosa e se non si riesce a dare la precedenza ad un’identità il conflitto è permanente (Donati). Tra le altre cose non in tutti i paesi islamici il velo è imposto, per cui è meglio parlare di una tradizione religiosa spesso regionale e raramente nazionale, che non avrebbe molto senso lasciar esportare in un conteso “straniero” pubblico. E quasi come se qualche ragazzo di Cagliari andasse a scuola o a lavoro (anche a Milano) tutti i giorni, col suo costume folkloristico sardo, per sentirsi più sardo.



Il vero senso di cittadinanza ti deve fare sentire prima italiano e poi sardo… Anzi prima cittadino del mondo, poi europeo, italiano e cristiano… Altrimenti col tempo si corre il rischio di mettere davanti gli interessi di poche persone del proprio gruppo regionale o religioso di riferimento, invece di difendere le libertà di tutti i cittadini (come succede spesso in Italia). Tutte le culture umane sono sempre state soggette a trasformazioni più o meno rapide e molte culture troppo statiche possono anche correre il rischio di scomparire. A mio parere l’evoluzione del sentimento religioso passa anche attraverso una maggiore privatizzazione dei comportamenti relativi alla manifestazione della fede e quindi con una riduzione della vanitosa esposizione pubblica.

Altro esempio: un’americana è a Tokio per lavoro e quando la sua controparte giapponese le porge il proprio biglietto da visita, lei lo prende distrattamente con una mano gli dà una rapida occhiata e lo ripone in tasca. Successivamente ricontatta il collega giapponese, ma l’affare sfuma. Un amico più esperto le spiega che ha perso l’affare per una incomprensione culturale. In Giappone il biglietto da visita è considerato un’estensione della persona, da trattare con grande rispetto, tenendolo con due mani e mettendolo in un posto sicuro (P. Donati).

Comunque Pierpaolo Donati è un autore accademico che è riuscito a trovare il coraggio di provare a valutare in modo scientifico il fenomeno del multiculturalismo, che troppo spesso viene gestito come moda culturale e come imposizione politica acritica. Purtroppo l’identità culturale delle persone si basa ancora sulla ragione simbolica, espressa da emozioni e valori morali, che spesso annulla le facoltà della ragione strumentale, di scopo e comunicativo-relazionale. E “il simbolismo è il linguaggio della religione ed è per la religione ciò che i numeri sono per la scienza” (Smith, 1991).

Nel campo religioso pubblico “l’unica verità è imparare a liberarci dalla passione insana per la verità” (Umberto eco, Il nome della rosa), rispettando le diverse verità personali degli individui.

P.S. Sul tema dei rapporti umani, e della crescita personale e sociale nelle società aperte multiculturali di oggi, si può anche leggere il bellissimo libro “L’arte del possibile” dei coniugi Zander (lui direttore d’orchestra, lei psicoterapeuta). Per esplorare l’intimità familiare di alcune tipologie di cultura islamica consiglio invece due stupendi libri di Asne Seierstad: “Il libraio di Kabul” e “Diario da Baghdad”(è una reporter di guerra freelance che ha vinto molti premi).

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