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Non c’è pace in Kirghizistan

1. Non sembra placarsi il conflitto etnico in atto in Kirghizistan. Dal giugno 2010, le tensioni tra le varie minoranze e la maggioranza al potere ha causato morte e sconvolgimento sociale nel Paese centroasiatico. Nel Paese, infatti, sono presenti uzbeki, tagiki, russi e gli scontri avvenuti l'estate scorsa testimoniano quanto la convivenza forzata si stia problematica e foriera di turbamenti.

La questione etnica in Kirghizistan, come in tutto il resto dell'ex Urss, risale a molti decenni fa. Nel periodo tra le due Guerre, Stalin si sforzò di creare uno Stato totalitario e ultracentralizzato, nettamente orientato vero la preminenza dell'elemento russo. Per riuscire nel suo intento, nell'atto di disegnare i confini delle future repubbliche dell'Unione mise in atto il vecchio stratagemma dell'”unisci per indebolire”, ossia tracciò il perimetro di ogni entità politica preoccupandosi di includere all'interno di ognuna una forte presenza di minoranze, a controbilanciare ogni eventuale spinta propulsiva avanzata dalle etnie dominanti.

Quando il Kirghizistan ottenne l'indipendenza nel 1991, i suoi cittadini furono di fronte allo spinoso dilemma riguardo a come costruire la neonata nazione: meglio un Paese in cui solo la maggioranza etnica gode di un ruolo di preminenza, o piuttosto uno Stato in cui tutti i cittadini hanno gli stessi diritti a prescindere dalla loro appartenenza etnica? Nei primi anni Novanta, ai cittadini del Kirghizistan mancava una chiara comprensione di chi apparteneva al loro nuovo stato. I kirghizi costituivano appena il 52% della popolazione e le minoranze reclamavano una maggiore rappresentanza nei posti di governo. Trascorsi due decenni di bilico tra le opposte alternative, segnati da incidenti e due sanguinosi conflitti, il Kirghizistan è ancora alle prese con lo stesso dilemma. Continuando a ripetere gli errori e le atrocità del passato.

E pensare che la storia del Paese era iniziata sotto le migliori premesse.

Desideroso di sedare le tensioni etniche, il primo presidente, Askar Akayev, ha cercato di promuovere una idea della cittadinanza in Kirghizistan come di uno Stato "casa comune" per tutti i popoli che lo abitano. Il presidente ha anche costruito rapporti informali con i leader dei gruppi etnici minoritari attraverso dell'Assemblea del Popolo, una struttura consultiva paragovernativa. Le politiche liberali Akayev hanno così permesso di ripartire, a livello informale, le diverse sfere di influenza tra i gruppi nei vari settori della vita economica e civile del Paese.

Dopo aver preso il potere nel marzo 2005, il secondo il presidente del Kirghizistan Kurmanbek Bakiyev ha soppresso gran parte delle misure politiche volute da Akayev. Invece di promuovere l'armonia delle relazioni interetniche, sotto Bakiyev il ruolo della Assemblea del Popolo è diminuita e la divisione informale dei settori economici e sociali è stata interrotta. In compenso è aumentata la repressione, condotta dall'apparato di sicurezza del Paese guidato dal fratello del presidente, Janysh, responsabile della repressione delle minoranze etniche. Un inversione della tendenza alla base dei sanguinosi scontri del giugno 2010

2. I fatti di giugno hanno devastato il Paese, provocando la morte di centinaia di persone e un dramma umanitario rappresentato dalla fuga di centinaia di migliaia di profughi, soprattutto uzbeki.

Eventi che hanno chiarito l'effettivo stato delle relazioni tra le minoranze etniche e la maggioranza kirghiza. "Il Kirghizistan ha vinto, gli uzbeki hanno perso. I vincitori dettano le regole del gioco e i perdenti le devono accettare", è il pensiero dominante tra le strade delle cittadine interessate dal conflitto.

Non tutti i cittadini, tuttavia, accettano questa visione. Alcuni moderati sostengono che la preminenza di un gruppo etnico sugli altri comporterà inevitabilmente altri scontri in futuro. I nazionalisti stanno ora cercando di screditare i moderati cercando di etichettarli come provocatori e antipatriottici.

Il governo del Kirghizistan è stato riluttante ad affrontare la cosiddetta questione delle nazionalità in modo più decisivo. Piuttosto che affrontare l'eredità della violenza in modo imparziale e con ferma determinazione, si è cercato di rimuovere gli eventi spiacevoli dalla coscienza e presentare una retorica impostata sull'”amicizia dei popoli" da ripetere come un mantra. Anziché condannare i sentimenti nazionalisti in aumento in modo coerente, la classe dirigente ha apparentemente accettato lo status quo a vantaggio della maggioranza etnica. Una (non) presa di posizione in parte dovuta alla paura di essere rovesciata dai gruppi nazionalisti più potenti, alcuni dei quali fanno riferimento a diverse influenti figure nell'ambito della politica nazionale.

Indipendentemente dalla loro motivazioni, l'atteggiamento passivo del governo del Kirghizistan di fronte ad una questione così delicata si dimostra pericoloso per una serie di motivi. In primo luogo, mina di fatto l'attuale sistema parlamentare, fondato sulla partecipazione delle minoranze etniche. In secondo luogo, l'aumento della violenza sta causando una fuga massiccia di cittadini laureati e competenti, compromettendo così la capacità del Paese di provvedere al proprio futuro sviluppo. Infine, l'usurpazione della politica da parte di gruppi nazionalisti sta peggiorando le relazioni tra il Kirghizistan e gli altri paesi della regione, in particolare l'Uzbekistan.

Conseguenze evitabili solo attraverso la presa di coscienza che la politica di armonia multietnica è stata un fallimento, soprattutto perché è rimasta in gran parte nelle dichiarazioni, senza un reale sostegno da parte del governo centrale e delle amministrazioni locali. Una politica propugnata solo a parole e imposta dall'alto senza avere progettualità né risorse non poteva che far esplodere una situazione già incandescente.

3. Ora il Kirghizistan si ritrova ad un bivio. I violenti avvenimenti del 2010 sono costati al Paese un pesante tributo, ma potrebbero anche offrire l'opportunità di imparare dagli errori del passato e di indirizzarsi lungo un percorso finalmente costruttivo.

Il 3 maggio, la Commissione internazionale indipendente di inchiesta per il Kirghizistan (KIC) ha presentato la sua relazione finale sull'ultimo conflitto interetnico.
La commissione, composta da sette esperti internazionali di tutto rispetto e presieduta da Kimmo Kiljunen, membro del Parlamento finlandese nonché rappresentante speciale dell'Ocse per l'Asia centrale, è stato incaricato dal presidente del Kirghizistan Roza Otunbaeva di condurre un'inchiesta sulla cause del conflitto. Alla relazione finale si è giunti dopo un attento esame di 750 interviste, e oltre 700 tra documenti, foto e numerosi materiali video. Oltre alla KIC, sono state istituite altre due commissioni, una nazionale e una parlamentare, per indagare sulle cause del conflitto. Mentre la primo ha presentato le sue conclusioni pochi mesi fa, la seconda ha promesso di pubblicare i suoi risultati entro le prossime settimane.

La KIC ha riconosciuto che la minoranza uzbeka è stata oggetto di una persecuzione sistematica, sostenuto che si ravvisano gli estremi per considerare gli atti compiuti contro di essa alla stregua di crimini contro l'umanità. La relazione afferma che l'aumento del fanatismo politico fondato su sentimenti nazionalistici è diventata il motivo scatenante per il tragico conflitto. Un vuoto di potere e le conseguente rivalità politiche all'interno di istituzioni statali deboli, in particolare nel sud del Paese, hanno contribuito alla eruzione di scontri violenti.

La Commissione ha stabilito che su 470 morti, il 74% apparteneva all'etnia uzbeka: "Centinaia di migliaia di persone sono state sfollate, per non parlare dei danni su larga scala alle proprietà, la maggior parte delle quali appartenevano agli uzbeki", si legge nel rapporto.

Attacchi che hanno avuto carattere sistematico e possono essere qualificati come crimini contro l'umanità, secondo il diritto internazionale. Inoltre, il rapporto afferma che gli arresti, le indagini penali e processi celebrati dopo gli eventi di giugno hanno mirato selettivamente a punire gli uzbeki: "Attualmente, l'80% dei procedimenti penali in corso riguardano cittadini di etnia uzbeka".
Inoltre, la Commissione ha riferito che per il governo provvisorio guidato dal presidente Otunbaeva era "impossibile non riconoscere o sottovalutare il deterioramento della situazione nel sud del Kirghizistan", affermando così un'indiretta responsabilità dello stesso. Infine, la Commissione ha affermato di aver le prove che alcuni reparti dell'esercito, che è principalmente composto da kirghizi, hanno preso parte alle violenze contro a minoranza uzbeka.

A sua volta, il governo kirghizo ha risposto con una relazione di 23 pagine a commento del rapporto stilato dalla KIC, nel quale respinge le conclusioni della Commissione e si dice in disaccordo con quasi tutti i punti del documento. Le autorità del Kirghizistan ha respinto le accuse della Commissione contro il governo provvisorio, sostenendo che le autorità erano riuscite a contenere il conflitto nei primi 3-4 giorni, evitando una catastrofe umanitaria di proporzioni maggiori rispetto a quella verificatasi. Inoltre, il governo del Kirghizistan ha deplorato che la Commissione non sia stata in grado di individuare le forze che hanno pianificato e organizzato il conflitto, nonostante i numerosi pezzi di prova esaminati. Il governo del Kirghizistan ha ripetutamente accusato i sostenitori dell'ex presidente Kurmanbek Bakiev e gli ambienti criminali intorno a lui di aver istigato il conflitto. Tuttavia, la Commissione non ha saputo presentare alcun elemento a sostegno di tali affermazioni.

4. Le conclusioni della Commissione hanno causato una forte reazione emotiva presso il pubblico. Numerose dichiarazioni hanno pesantemente criticato il lavoro della Commissione definendola "parziale e unilaterale", sostenendo che tale relazione potrebbe addirittura contribuire ad un'ulteriore escalation di tensioni interetniche.

Molti analisti concordano sul fatto che i risultati della relazione verranno ancora interpretati in modo diverso da gruppi diversi, avvertendo che i risultati possono diventare oggetto di manipolazione politica in vista dell'imminente anniversario degli eventi il prossimo giugno e delle elezioni presidenziali in programma per l'autunno di quest'anno.

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