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Nomina del presidente della Rai. Il servizio pubblico italiano non è la BBC

di Vitalba Azzollini

Negli ultimi tempi si assiste a dibattiti surreali, che creano una matassa aggrovigliata della quale l’informazione stenta a trovare il capo. Riuscire a restare lucidi, dipanando nodi senza esserne invischiati, diviene così quasi una sfida. La questione della nomina del presidente della Rai ne è solo uno degli esempi.

 

La vicenda è nota: il governo ha indicato Marcello Foa, figura controversa e divisiva per alcune posizioni molto schierate e per una certa inclinazione al cospirazionismo. Nel guazzabuglio delle dichiarazionirese al riguardo, è emersa un’istanza comune: il presidente della Rai – figura “di garanzia” – deve essere estraneo a logiche politiche. Istanza condivisibile, ma indicativa della scarsa coerenza dei politici da cui proviene: quelli che hanno indicato un nominativo conforme alle loro idee politiche; quelli la cui riforma ha ancor più legato la Rai alla politica; quelli che forse avrebbero barattato un voto a favore con vantaggi politici e non soltanto. Qualche considerazione ulteriore può aiutare a capire.

Il presidente della Rai può davvero essere una figura sganciata dalla politica, come i politici suddetti pretenderebbero? La risposta è no. Egli viene nominato dal consiglio di amministrazione – i cui componenti sono emanazione di partiti politici – e confermato dai 2/3 dei componenti della commissione di vigilanza, dunque da soggetti riconducibili ai partiti.

Il presidente della Rai può davvero essere “di garanzia”? La risposta è sì, ma solo nel senso che l’approvazione della sua nomina da parte dei 2/3 della commissione garantisce un certo equilibrio, e cioè che egli sia gradito da buona parte delle forze politiche presenti in Parlamento. Ma la vera domanda è: cosa “garantisce” il presidente? Molto poco, secondo la riforma della Rai e lo statuto di quest’ultima: oltre ad essere titolare di un potere di rappresentanza legale e a svolgere compiti in tema di adunanze dell’assemblea e del consiglio di amministrazione, gli possono essere affidate dal consiglio stesso “deleghe nelle aree delle relazioni esterne e istituzionali e di supervisione delle attività di controllo interno”, e nient’altro.

Di certo, egli non può fungere da contrappeso al potere dell’amministratore delegato (il cui iter di nomina è uguale e che, pertanto, è pure espressione di politici), cui la riforma ha conferito poteri rilevanti. L’amministratore delegato, infatti, nomina direttori di rete, di testata e di canale, e il consiglio di amministrazione esprime esclusivamente un parere, obbligatorio ma non vincolante (solo per i direttori di testata, il parere diventa vincolante, se sono contrari i 2/3 dei componenti del consiglio di amministrazione). L’amministratore delegato, inoltre, firma autonomamente contratti fino al valore di 10 milioni.

Cosa emerge da quanto fin qui esposto? Che l’emittente pubblica è sempre più schiacciata “sotto il peso del potere politico”, in particolare del governo. Eppure, nel 1976 la Corte Costituzionale aveva indicato sette regole idonee ad assicurare che il pluralismo della Rai: tra queste, quella per cui “gli organi direttivi dell’ente gestore (…) non siano costituiti in modo da rappresentare direttamente o indirettamente espressione, esclusiva o preponderante, del potere esecutivo e che la loro struttura sia tale da garantirne l’obiettività”. Non serve dire altro.

Anzi, un’ultima notazione: come potrebbero evitarsi le distorsioni che inevitabilmente scaturiscono dalla presenza della politica nell’emittente televisiva? Come si potrebbe sottrarla alle “logiche della partitocrazia”? Servirebbe il rispetto di alcuni paletti: criteri chiari di selezione stabiliti ex ante e resi pubblici, quindi trasparenza nel metodo; conseguente motivazione delle scelte effettuate e sindacabilità da parte di coloro i quali, col canone, finanziano il servizio pubblico televisivo e hanno pertanto ogni diritto di conoscere come viene nominato chi se ne dovrà occupare; verifica da parte di un soggetto indipendente che gli obiettivi prefissati siano stati raggiunti.

Un inciso, a proposito di trasparenza: la pubblicazione sui siti web della Camera e del Senato dell’elenco dei candidati al consiglio di amministrazione della Rai è solo una farsa di disclosure. Infatti, se non vengono preliminarmente resi pure noti i requisiti in base ai quali qualcuno verrà reputato più meritevole di qualcun altro, le persone prescelte non possono di certo essere “al di sopra di ogni sospetto di appartenenza politica”, come qualcuno dice.

L’ipotesi di soluzione sopra esposta non è frutto di fantasia, ma trova applicazione per la britannica BBC. In Gran Bretagna, dal 1’ gennaio 2017 è vigente il nuovo Royal Charter (emanato a seguito di una pubblica consultazione, basata sugli indirizzi formulati prima nel “Libro verde” e poi nel “Libro bianco“, oltre che su una relazione di un esperto indipendente) che, insieme all’Agreement (contratto di servizio stipulato tra BBC e Ministro competente, Secretary for Culture, Media and Sport), disciplina finalità istituzionali, indipendenza editoriale, fonti di finanziamento e compiti della società concessionaria del servizio pubblico. Con le nuove regole, che hanno modificato la governance precedente, al vertice della BBC è posto il Board, garante della sua indipendenza e responsabile dei risultati da essa conseguiti in conformità alle sue finalità e ai suoi obblighi.

Fanno parte del Board 14 componenti nominati dalla Corona su proposta del Governo tra persone dotate di esperienza e competenza. Anche nella BBC, quindi, la politica entra in qualche modo, ma la differenza rispetto all’Italia è rilevante: le designazioni avvengono in base ad una valutazione comparativa dei candidati totalmente trasparente, svolta secondo i criteri generali stabiliti per le nomine pubbliche (indicati nel Governance Code). Ciò assicura che il procedimento di selezione sia condotto secondo un metodo preciso, noto a priori, connotato da requisiti di pubblicità che rendono il risultato sindacabile da parte della collettività.

Tutt’altra cosa rispetto all’opacità nostrana. Peraltro, vale la pena di aggiungere che, secondo quanto stabilito nell’Agreement, le attività della BBC sono preliminarmente distinte tra quelle di interesse pubblico (UK Public Services), quelle di supporto alle finalità di interesse pubblico (non-service activities), quelle di natura commerciale, non finanziate dal canone (trading o commercial activity). L’operato della BBC in ciascuno dei suddetti ambiti è oggetto della vigilanza di Ofcom, autorità indipendente, per i profili concernenti il rispetto sia degli obblighi inerenti al servizio pubblico (valutati in base al cosiddetto public interest test), sia dell’assetto concorrenziale del mercato di riferimento (competion assessment). Dunque, date certe storture nazionali, dalla Gran Bretagna l’Italia avrebbe molto da copiare.

Sarebbe troppo semplice concludere che la Rai “non è la BBC”, anzi troppo ottimistico. Perché qualunque ambito del Paese anche solo sfiorato dalla politica non è la BBC: fosse solo la Rai, il problema.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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