• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Tribuna Libera > Noi reduci e quel che ci manca: orgoglio e responsabilità per superare la (...)

Noi reduci e quel che ci manca: orgoglio e responsabilità per superare la Crisi

"Non sono state le bombe a traumatizzarci;  una buffonata dopo l’altra (e quelle di Craxi o De Mita non sono state meno devastanti di quelle di Berlusconi) si è sbriciolata, in un lento degrado, la nostra fiducia nello Stato e nelle istituzioni".

Ho finito in questi giorni un lavoro che ho iniziato un paio d’anni fa, pochi mesi dopo aver cominciato a scrivere su queste colonne. Non so che ne sarà di quelle pagine, un tentativo di restituire quel che fu l'esperienza della Grande Guerra partendo dal carteggio tra i miei bisnonni; probabilmente non usciranno mai dal mio hard disk, ma qualcosa, da tutto questo tempo passato in trincea, con i fanti della brigata Barletta, ho ad ogni modo ricavato.

Ora so, per quanto è possibile sapere senza essere stati fisicamente sull’Isonzo e sul Montello in quei momenti, che cosa videro e sperimentarono quegli uomini. So, per esempio che chi era con la brigata quando andò in linea per la prima volta, tre anni dopo aveva visto morire, spesso di morti orribili, o restare gravemente ferito, il 99% di quelli che erano con lui in quel giorno di fine estate del 1915.

Credo d’aver capito meglio il fascismo e il nazismo, grazie a questo. Per certo adesso ora attribuisco un valore  nuovo alla parola “reduci” spesso impiegata per descrivere i primi militanti di quei movimenti.

Che personalità potevano avere quei reduci? Quanto restava delle loro normalità dopo aver dovuto sopportare, a volte per anni, l’insopportabile. Che valore potevano attribuire alla vita umana? Che cos’era, passando al piano politico, per loro lo stato? Lo stato che li mandava al massacro quando, nel caso degli italiani, non li massacrava con le mitragliatrici dei Carabinieri? Quali limiti potevano pensare fosse giusto porre ai poteri dello Stato, e all’uso della violenza,  nei confronti dell’individuo?

Fascismo e nazismo, come scelta dei singoli prima che movimento di massa, diventano così  più comprensibili; appaiono, nella loro diversità, come la risposta patologica di menti sconvolte dal conflitto alle difficoltà oggettive, economiche innanzitutto, di quel dopoguerra.

Mi viene spontaneo chiedermi quanto abbiano influito le esperienze personali, quanto abbia contato la dimensione psicologica che fino ad ora io ho per certo sottovalutato, nelle scelte di chi ha retto le nostre sorti. Quanto le loro decisioni siano influenzate dall’umana incapacità, di considerare ogni istante come perfettamente nuovo.

Fino a che punto possono aver considerato possibile una simile crisi, parlo di quella che stiamo attraversando, uomini e donne che per tutta la loro vita hanno conosciuto un’interrotta, o quasi, crescita economica? Quanto possono aver preso sul serio la gestione del debito pubblico, ovvio che mi riferisca ai politici italiani, persone che lo hanno visto sempre aumentare senza che questo, apparentemente, minacciasse quella che si compiacevano di chiamare “economia reale”.

Un paio di anni fa, ormai quasi tre, durante la mia ultima visita ai luoghi della mia infanzia, sono stato a cena con uno di quei capitani d’industria (una media azienda, cento e qualche dipendenti, tra le più importanti al mondo nel proprio minuscolo settore) cui dobbiamo tanto se ancora, nonostante tutto, riusciamo a pagarci la bolletta energetica.

Il padrone di casa era un uomo di visione; un lavoratore infaticabile dotato di un intelligenza notevolissima. E’, per chi mi legge abitualmente, uno di quei borghesi che tanto vorrei vedere occuparsi della politica che purtroppo disdegnano.

Aveva idee chiarissime riguardo i problemi italiani; mi parlò a lungo della necessità di migliorare il livello d’istruzione dei lavoratori, per esempio. Frasi come “non possiamo far concorrenza alla Cambogia” e “un operaio dovrebbe avere, come minimo, un diploma” le ho sentite dire a lui.

Solo quando si arrivò a parlare di debito mi stupì. Fece spallucce: “Quello, in qualche modo si aggiusta”.

Questa attitudine credo sia quella che ci ha rovinato e sta continuando a rovinarci: l’idea che in qualche modo, per intervento di qualche deus ex machina, tutto tornerà miracolosamente a posto. Che la crisi passerà da sola o quasi e che si troverà il modo, indolore per noi, di far scomparire il debito pubblico.

E’ facile tirare le pietre contro l’attuale pessimo governo ed il suo buffonesco presidente del Consiglio. Nessun dubbio che se ne debbano andare quanto prima, ma dubbi, e fortissimi, sulla reale capacità di comprendere la situazione, in tutta la sua gravità, da parte del resto dei miei connazionali.

Nessuno o quasi, in realtà, sembra capire fino in fondo che il paese è appeso con le unghie ad un trapezio e che se molla la presa non c’è proprio nessuna rete che gli attutirà lo schianto.

Tutti, abituati da una quarantennale mancanza di serietà nella gestione della cosa pubblica, pensano che si possa uscire dalla crisi senza compiere reali sacrifici.

Facendo finta di cambiare, ma restando esattamente quel che si è; facendo pagare il conto ad altri e imputando a questi altri tutte le responsabilità in uno scaricabarile che sarebbe comprensibile in una situazione normale, ma che non ha alcun senso quando si sta lottando per la sopravvivenza.

Questo è quel che mi spaventa dell’Italia d’oggi, più del debito, della pochezza di Tremonti o della follia di Bossi: l’incapacità di capire, da parte di tutti noi, quanto grave, e diversa da ogni altra abbiamo sperimentato, prima sia la situazione.

Il fatto che ci siamo trovati ad affrontarla con uno zaino pieno zeppo di manovrine e governi balneari, di roboanti dichiarazioni e sostanziali nulla di fatto; di tutto quel è stata la straordinaria follia delle nostra vita politica dell’ultimo mezzo secolo.

Siamo dei reduci anche noi e anche noi abbiamo perso il senso della normalità.

Non sono state le bombe a traumatizzarci;  una buffonata dopo l’altra (e quelle di Craxi o De Mita non sono state meno devastanti di quelle di Berlusconi) si è sbriciolata, in un lento degrado, la nostra fiducia nello Stato e nelle istituzioni.

Abbiamo perso, se mai l’abbiamo avuta, la fiducia nella Repubblica che è come dire la fiducia in noi stessi: siamo arrivati tanto in basso da sperare che qualcuno arrivi a limitare la nostra sovranità nazionale; che qualche adulto ci tenga una mano sulla testa.

Non ho la ricetta per uscire dalla crisi, ma so per certo che senza uno scatto d’orgoglio collettivo, senza una collettiva assunzione di responsabilità, non ce la faremo.

Orgoglio e responsabilità; quel che la nostra collettività nazionale, prima che la nostra politica, deve ritrovare.

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox







Palmares