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Né in dio né in altri complotti: una prospettiva umanista

Credenti e complottisti si guardano bene dall’essere accomunati tra di loro. Ma a ben vedere le religioni non sono che longevi complotti ante litteram – e le moderne teorie del complotto soltanto bizzarre teologie in assenza di dio. Giovanni Gaetani, con le armi della filosofia e dell’ironia, affronta il tema sul numero 5/22 di Nessun Dogma.

Il papa si è recentemente scagliato contro le fake news. Ha ribadito la necessità di «contrastare la menzogna e la disinformazione» (sic!) per «aiutare le persone, soprattutto i giovani, a sviluppare un senso critico, imparando a distinguere il vero dal falso, il giusto dall’errato, il bene dal male». Un’iniziativa tanto lodevole quanto paradossale. Perché cos’è il cattolicesimo – come ogni altra religione – se non un enorme castello di fake news?

Nessun credente condividerebbe questa affermazione, ovviamente. È diffusa infatti la convinzione, anche tra alcuni non credenti, che le religioni siano qualcosa di più nobile e di più rispettabile di una qualsiasi teoria del complotto, come se esistesse una differenza reale tra fake news – notizie false messe in circolazione per favorire gli interessi di qualcuno – e faith news – dogmi di fede nei quali sarebbe invece del tutto ragionevole credere.

L’intento di questo articolo è smantellare questa convinzione. Per farlo, elencheremo le tante analogie e le poche differenze che intercorrono tra religioni e teorie del complotto (da qui in avanti soltanto “complotti”), mostrando poi come entrambe assolvano la medesima funzione nelle vite di credenti e complottisti.

Questa analisi, lungi dall’essere motivata da un mero interesse critico e speculativo, ha in realtà un valore pratico e propositivo: una volta compreso il meccanismo che accomuna religioni e complotti, cercheremo infatti di capire in cosa può credere chi non vuole credere né nelle prime né nei secondi. Cominciamo dunque con qualche definizione di base.

Religioni vs. Teorie del complotto

Stando alla Treccani, ‘religione’ è definibile come «complesso di credenze, sentimenti, riti che legano un individuo o un gruppo umano con ciò che esso ritiene sacro, in particolare con la divinità». In questa definizione l’accento è posto sull’etimologia latina del termine, dal verbo religare, che sta appunto per “legare” o “unire in un fascio” più elementi tra loro.

L’espressione ‘teoria del complotto’ ha invece un’origine diversa e più recente. Deriva dall’inglese conspiracy theory, espressione coniata nel 1963 in ambito giornalistico per indicare il proliferare di teorie (35 per l’esattezza) sull’omicidio del presidente Kennedy. Non che prima del 1963 non esistessero teorie del complotto – tutt’altro! Stiamo parlando qui solo dell’accezione moderna del termine.

Interessante notare lo slittamento semantico del sostantivo ‘complottista’: originariamente indicante colui che architetta e mette in atto il complotto, oggi indica invece colui che nel complotto crede. In tal senso, ‘teoria del complotto’ è definibile (sempre dalla Treccani) come «fantasia popolare relativa a un piano tramato da poteri oscuri per ridurre in schiavitù l’intera umanità o, alternativamente, per avviare un’autodistruzione di massa».

Stando a queste due definizioni, religione e complotti sembrerebbero cose molto diverse fra loro. Basta però una semplice analisi fenomenologica (come direbbe pomposamente un filosofo) per scoprire la loro profonda affinità. Iniziamo dunque.

La triplice funzione della religione

Ogni religione assolve una triplice funzione nella vita di un credente – esistenziale, comunitaria e liturgica:

esistenziale perché la religione – intesa come insieme di dottrine, precetti e narrazioni soprannaturali – dà un senso all’esistenza del credente, offrendogli una spiegazione del suo stare al mondo, la sua destinazione ultima, ma soprattutto il motivo del suo soffrire;

comunitaria perché la religione, per definizione, “lega” gli individui in gruppi più o meno organizzati, uniti da un’unica fede in determinate credenze soprannaturali;

liturgica perché la religione scandisce il tempo dell’individuo con riti e celebrazioni regolari, siano esse giornaliere (come le cinque preghiere al giorno nell’islam), settimanali (come la messa domenicale cattolica), mensili (come le feste induiste legate ai cicli lunari), annuali e così via.

È estremamente interessante notare come le tre funzioni si rafforzino a vicenda e costituiscano un triangolo inscindibile:

– la funzione esistenziale trova conferma nella condivisione comunitaria – e il credente ripete a se stesso: «non sono il solo a credere in tutto ciò, e non possiamo essere in così tanti a illuderci!»;

– la funzione comunitaria si rafforza nella ripetitività liturgica – e i credenti ripetono in coro a ogni adunata: «eccoci ancora una volta tutti insieme!»;

la funzione liturgica si rafforza infine in quella comunitaria, dando l’impressione ai singoli individui di partecipare a una storia eterna celebrando un rito millenario – e i credenti ripetono a sé stessi: «crediamo nella stessa fede che era dei nonni dei nostri padri e che sarà dei nipoti dei nostri figli!».

Morfologia religiosa

Fin qui la triplice funzione della religione. Vediamo invece la sua struttura formale.

Contrariamente a quanto si potrebbe di primo acchito pensare, il minimo comun denominatore di ogni religione non è la fede nell’esistenza di una o più divinità “buone”, bensì in una o più divinità “capaci di fare il nostro bene intervenendo nel reale”. La differenza, tutt’altro che sofistica, è sostanziale. Per un credente, infatti, non conta né il numero di divinità in cui crede, né la loro specifica natura morale.

Quello che davvero conta è la loro onnipotenza al nostro servizio: il potere cioè di esaudire i nostri desideri, di vendicare i soprusi subiti e di ricompensare i nostri sacrifici. Di un dio infinitamente buono ma sordo alle nostre preghiere non sapremmo che farcene – e parlo qui, ovviamente, dalla prospettiva di un credente.

Altro minimo comun denominatore di ogni religione è il mistero. Le divinità, per definizione, sono nascoste (dei absconditi) e agiscono nel reale per vie inspiegabili secondo ragione. Anche qui, un dio che facesse il nostro bene rispettando le leggi della fisica sarebbe per noi inutile. Abbiamo invece bisogno di divinità in grado di sospendere quelle stesse leggi da loro create, al fine di modificare il corso delle cose a nostro vantaggio – la famosa provvidenza divina. In altre parole, abbiamo bisogno di miracoli. Perché investire tempo ed energie nel venerare un dio che lasci il mondo esattamente com’è?

Divinità onnipotenti e misteriose, dunque, in grado di ascoltare le nostre preghiere e fare il nostro bene. Ma allora come si spiega l’esistenza del male nel mondo? È l’eterno problema della teodicea, comune a ogni religione e che nessuna religione ha mai davvero risolto – se non attraverso numerose piroette teologiche: il male come punizione divina, come condizione di esistenza (e al tempo stesso prodotto) del libero arbitrio umano, come messa alla prova della nostra fede, come mera apparenza cosmologica, come atto diabolico, e così via, di supercazzola in supercazzola. Di una cosa ogni credente è certo: il male non è mai imputabile a una divinità – e quando una divinità infligge una punizione, è perché gli esseri umani se la sono meritata…

Veniamo al penultimo elemento comune a ogni religione: l’avversione allo scetticismo. Il quale ha ricadute pratiche fondamentali per ogni seguace e comunità, non fosse per il fatto di aprire l’individuo alla mera possibilità dell’ateismo. Per questo è spesso punito duramente in contesti settari e teocratici – perché l’individuo che dubita della religione è una minaccia per la comunità intera, e allora bisogna accusarlo di apostasia o blasfemia con conseguente allontanamento o punizione.

Qual è dunque l’ultimo elemento comune a ogni religione? La fede come virtù. L’idea, cioè, che credere nell’incredibile sia un valore in sé. Che più assurda sia la fede, più essa valga. E che la vera forza di un credente stia proprio nella capacità di rilanciare sulla fede nonostante l’evidente assurdità del suo credo.

Analogie e differenze tra religioni e complotti

Queste tre funzioni e questi cinque elementi appena elencati si applicano alla perfezione alle teorie dei complotti – tutti tranne uno. Quale? Il fatto che l’onnipotenza del dio dei complottisti – “l’eminenza grigia”, come la chiameremo d’ora in avanti – non sia al servizio dei complottisti, bensì contro di loro. È questa la differenza fondamentale tra religioni e complotti: le divinità che operavano per il bene dell’umanità nella visione religiosa delle cose, operano invece contro l’umanità in ogni teoria del complotto. Questo dà vita a effetti strabilianti, e risolve d’un sol colpo l’eterno problema della teodicea religiosa – perché agli occhi dei complottisti esiste finalmente una divinità imputabile di ogni male del mondo, sia essa Bill Gates, i rettiliani, Big pharma, il Deep state, il Nuovo ordine mondiale e ogni altra eminenza grigia di turno.

Scendiamo nel dettaglio. I complotti stanno alle vite dei complottisti così come le religioni stanno alle vite dei credenti, poiché assolvono la stessa triplice funzione descritta in precedenza:

– esistenziale, visto che il complotto offre al complottista una spiegazione dello stato delle cose nel mondo, offrendogli al tempo stesso una missione di vita («devo smascherare il complotto e diffondere il segreto a più persone possibile») e una giustificazione della sua sofferenza («è colpa dell’eminenza grigia se la mia vita è così misera»);

– comunitaria, perché il singolo complottista trova un confortante riconoscimento nelle sue comunità di riferimento, siano esse online (il caso più frequente) o offline;

– liturgica, perché le comunità complottiste possiedono una serie di rituali a sé, siano essi gli attacchi a persone e gruppi avversi, l’atto di condividere le fake news «prima che le cancellino», i gesti di protesta collettiva o individuale (come il rifiutare mascherina e vaccini in piena pandemia), incontri, conferenze e cortei sul tema, e così via.

Anche gli altri elementi elencati più sopra si ritrovano intatti nelle varie teorie dei complotti:

– l’eminenza grigia di turno è onnipotente – come definire altrimenti un’entità capace di iniettare cinque miliardi di chip ad altrettante persone attraverso il vaccino anti-covid? O di diffondere il covid attraverso il 5G? O di controllare le menti delle persone attraverso le scie chimiche?

– l’eminenza grigia agisce misteriosamente – vedi quanto appena detto;

i complottisti sono avversi allo scetticismo, il quale diventa magicamente parte del complotto stesso – ad esempio, chiunque provi a mostrare l’efficacia dei vaccini viene marchiato come agente al soldo di Big pharma;

– i complottisti celebrano la loro ostinazione fideistica come una virtù in sé: «gli altri non sanno, ma io sì…»

Un appunto di teoria memetica

Da un punto di vista di teoria memetica (la teoria, in breve, che studia il diffondersi e l’evolversi delle idee nelle società) religione e complotti sono memi molto simili. Non solo per la pressoché identica funzione e struttura, ma anche e soprattutto per la loro semplicità, il loro alto coefficiente di replicabilità e la loro autoimmunità.

La semplicità e l’alta replicabilità si devono al fatto che, in entrambe le ottiche, la chiave di volta consiste nel ricondurre tutto e sempre a un unico agente morale: dio da una parte, l’eminenza grigia dall’altra. Per far ciò, del resto, non servono conoscenze approfondite. Basta apprendere un semplicissimo meccanismo di fondo:

– se un fatto supporta la mia visione, lo ingloberò in essa;

– in caso contrario, lo rigetterò come diabolico (in un’ottica religiosa) o come parte del complotto stesso (in un’ottica complottista).

L’autoimmunità riguarda invece la capacità del meme religioso-complottista di attaccare ogni criticismo, persino quelli che arrivano dall’interno stesso del suo nucleo comunitario – non a caso alcuni tra i maggiori critici delle religioni erano credenti essi stessi, tacciati automaticamente di eresia, apostasia, blasfemia, eccetera.

Sta tutta qui la forza delle religioni e dei complotti: accessibili a tutti e di facile replicabilità, attraggono persone che, per un motivo o per un altro, hanno un disperato bisogno di senso, di consolazione e di giustizia – se non addirittura di vendetta…

Oltre dio e i complotti

Religione e complotti, dunque, assolvono in tutta la loro assurdità a bisogni umani elementari: il bisogno di senso, comunità, liturgia, giustizia. Come si pongono gli umanisti e gli atei e agnostici razionalisti di fronte a essi? Per alcuni di noi, questi problemi nemmeno si pongono. Altri hanno invece imparato a soddisfare quei bisogni in maniera laica e razionale, ognuno a modo nostro, senza che una soluzione si imponesse sulle altre come l’unica giusta. È però possibile intravedere alcuni tratti comuni a tutte queste soluzioni.

A livello esistenziale, la cifra comune alle nostre visioni è un certo nichilismo di fondo. Non crediamo in dio, certo, ma nemmeno nell’esistenza di un destino ultimo che sarebbe nostro dovere compiere. Le stelle e i pianeti esistono, ma ci ignorano del tutto, con buona pace degli amanti dell’astrologia. Le cose accadono in accordo con le leggi dell’universo – le stesse che stiamo imparando lentamente a conoscere, di scoperta in scoperta, attraverso la nostra piccola ragione e il suo strumento per eccellenza: la scienza.

Altra cifra comune è il riconoscimento della nostra ignoranza, l’accettazione del ruolo del caso nelle nostre vite, e il rispetto del mistero in quanto tale, senza assecondare l’urgenza di risolverlo a ogni costo, tappando i buchi della nostra conoscenza con risposte frettolose e soprannaturali. Perché non solo sappiamo di non sapere tutto. Sappiamo anche che non serve sapere tutto per vivere felici. Di più: sappiamo anche che ci sono cose che per essenza non sapremo mai – come ad esempio cosa ci sia oltre l’orizzonte degli eventi, come determinare al tempo stesso la posizione e la velocità di una particella elementare, cosa ci sia stato prima del Big bang, e se abbia persino senso porsi una domanda del genere…

A livello comunitario, ognuno è libero di riconoscersi in una o più comunità di riferimento, entrando e uscendo da esse liberamente, in accordo con la propria natura. La nostra associazione, in tal senso, è per molti di noi un modo per soddisfare il nostro bisogno di comunità.

Similmente, a livello temporale scandiamo le nostre vite ognuno a modo nostro. C’è chi ad esempio preferisce farlo attraverso delle cerimonie umaniste, o degli incontri regolari con persone che la pensano allo stesso modo. Altri, come già detto, riescono a fare a meno di tutto ciò. Quello che conta è che alla fine prevalga la libertà individuale. A ognuno il suo, insomma.

E la giustizia? Come ci poniamo di fronte a essa? Bella domanda. Sappiamo che non esistono consolazioni ultime né ricompense ultraterrene che vendichino le ingiustizie subite in vita. Che ognuno di noi potrebbe morire da un momento all’altro, senza che questa morte abbia alcun senso superiore, né un inaspettato sequel. Che l’umanità non è sempre esistita e che prima o poi si estinguerà.

Al tempo stesso, però, sappiamo che possiamo concentrare i nostri sforzi su quel poco che ci è toccato in sorte, cercando di migliorare la condizione umana attraverso la ragione, l’empatia e la cooperazione. Non in ginocchio su un genuflessorio invocando divinità inesistenti, né seduti arroccati dietro una tastiera denunciando impossibili complotti: quello che ci resta da fare è vivere in piedi, dandoci da fare ognuno a modo nostro per migliorare la condizione umana e rendere il nostro soggiorno terreno il più felice possibile.

Giovanni Gaetani

 

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