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Musicafoscari/San Servolo Jazz Fest

Buona affluenza di pubblico per un nutrito ed interessante cartellone

Quattro giornate di festival con otto gruppi o solisti rappresentano un cartellone soddisfacente per un festival, cosa assai rara, ad ingresso gratuito. Il Musicafoscari/San Servolo Jazz Fest, giunto alla quinta edizione, nasce dall’incontro di due esperienze : il festival di Jazz organizzato dall’Università Ca’Foscari di Venezia, nato nel 2013 ad integrazione delle attività musicali permanenti – leggi “Workshop” – iniziate nel 2010 e il “San Servolo Jazz meeting, che dal 2004 al 2011 riusciva a calamitare l’attenzione di un vasto pubblico nell’isola ex manicomio maschile, rifiorita dopo l’abbattimento nazionale di simili strutture sanitarie.

Il titolo scelto dal direttore artistico Daniele Goldoni, professore di estetica delle arti all’ateneo e trombettista, Rainbows, “richiama”, sono parole sue, “i tanti colori musicali che il Jazz oggi esplora oltre i suoi confini e al tempo stesso richiama la musica di Terry Riley, la cui presenza nel festival fa dialogare l’improvvisazione jazzistica con l’indeterminazione della musica sperimentale e minimal.

Il primo appuntamento, l’unico all’auditorium dell’isola di San Servolo, è con “The Claudia Quintet”, guidato dal batterista John Hollenbeck, che lo fondò nel 1997. Il nome di donna si riferisce ad una fan dei primi tempi che promise di ritornare successivamente, senza più mantenere la parola data. E’ considerato uno dei gruppi più innovativi della scena newyorkese ed esegue una musica difficile da catalogare. Azzardo : un Jazz moderno tra il mainstream e la musica contemporanea, con la creatività sullo sfondo. Otto i brani ascoltati, tutti originali del leader, spesso divertente nel momento di introdurre un brano, come nel caso di “Angry”, titolo scelto per essere stato preso in giro da una serie di scolari all’interno di uno Schoolbus giallo. La batteria ha una sonorità affascinante. Le pelli, pur tirate, danno un suono caldo e profondo, sopratttutto nella grancassa. Jeremy Viner passa con abilità dal clarinetto al sax tenore. Red Wierenga, alla fisarmonica, spesso conferisce una certa malinconia, che dà luce e rende bello il brano. Matt Moran al vibrafono esibisce la tecnica a due e a quattro mallets, oltre a sfregare con un arco di crine le lamelle nei brani dal carattere più misterioso. Adam Hopkins è un giovane contrabbassista che intuisce e sostiene le idee di Hollenbeck. Tempi dispari, accelerazioni, momenti infuocati, ritmi funk, spazzole, si rincorrono per un’ottantina di minuti. Belli a volte gli stop in cui si tolgono o il basso e la batteria, o la fisarmonica, il vibrafono e il fiato, quasi una riflessione per ripartire tutti insieme in maniera concitata. Tra i titoli, segnalo “September Night”, dedicato a Wayne Shorter e “Rose colored Rhythm”, allo scomparso master drummer senegalese DouDouN’Diaye, padre, a detta di Hollenbeck di ben 35 figli.

Interessante il pomeriggio sabatino alla Fondazione Levi in compagnia di Evan Parker (Bristol, 1944), specialista di sax soprano e alfiere della tecnica di respirazione circolare, di cui ha dato ampia dimostrazione in un’improvvisazione durata sedici minuti, ossessiva, ipnotica, seguita in silenzio da una platea di appassionati e musicisti. A seguire ha condotto una performance di ventisei minuti con un tentetto di, prevalentemente, giovani musicisti militanti in Elettrofoscari e Unive Ensemble, oltre a Daniele Goldoni, ala tromba e Nicola Fazzini al sax alto, il quale da tempo insegna nei workshop dell’ateneo. Parker, spalle al pubblico, guarda i musicisti e con dei gesti indica su che cosa improvvisare oppure fa capire ad ognuno quando è il momento di mettersi in luce o di smettere. Si inizia con il suono di una sanza, il piano a pollice di origine africana, a cura del batterista Raul Catalano. Entra poi il piano elettrico con fraseggi che ricordano il periodo davisiano di “Bitches Brew”. Gli altri strumenti sono il contrabbasso, la chitarra acustica con pick up, un violino spesso pizzicato, il sax alto di Fazzini, un clarinetto basso, un altro sax alto, la tromba spesso sordinata di Goldoni e dei vocalizzi di una giovane, emozionata, ma attentissima musicista. Ecco alcune note trovate in rete, scritte da Evan Parker per spiegare come affronta un workshop sull’improvvisazione. “Gli unici elementi che porto con me in un workshop sull’improvvisazione sono l’esperienza, i pregiudizi e forse qualche divieto. Sono contrario all’esercizio arbitrario dell’autorità – preferisco piuttosto incoraggiare i musicisti che hanno paura di sbagliare o, all’estremo opposto, quelli che sono fin troppo sicuri di sé. Se devo pensare ai miei divieti, di solito sono contrario all’impiego superfluo dell’amplificazione. Mi auguro prima di tutto di riuscire a capire subito la situazione, così da mettere rapidamente a punto la formula capace di sfruttare al meglio il tempo a disposizione”.

Il concerto più bello per chi scrive - non potendo relazionare quelli non visti su musiche di Terry Riley e originali (Elettrofoscari + Unive Ensemble), di Riley e Philip Glass (quintetto Timegate), di Eloisa Manera (al violino e all’elettronica), oltre ad un piano solo di Fabrizio Ottaviucci, un recital con musiche originali e di Riley ed Alvin Curran – è stato quello del pianista e compositore Uri Caine all’auditorium S.Margherita, stracolmo, anche se è facile riempire 237 posti legalmente consentiti per un concerto gratuito in un teatro collocato al centro della movida studentesca. Il pianista, originario di Philadelphia, ma residente a New York, trova sempre molto affetto quando si esibisce a Venezia. Probabilmente anche per aver diretto nel 2003 una delle più belle edizioni della Biennale Musica, rimasta impressa nella memoria degli appassionati di Jazz. Era un po’ agitato, mi ha confidato prima di iniziare, davanti ad un pubblico così numeroso, anche perché aveva scritto tutta la notte in previsione di un concerto con un’orchestra sinfonica americana ad inizio del prossimo anno. Tuttavia non sembrava così. E infatti, appena sedutosi sul seggiolino canonico, ha iniziato con forza a percuotere i tasti, dapprima dando vita ad un potente Free contemporaneo, poi con escursioni nell’Early Jazz, che ama e che ha ascoltato negli anni della sua formazione. In evidenza “Maple leaf rag” di Scott Joplin. Un’ottima, appassionata, versione di “ ‘Round Midnight” : Uri ha sempre un andamento molto ritmico nel tempo medio-veloce che somiglia ad una cavalcata vittoriosa. In questo lungo collage ( durerà 57 minuti) trova spazio un tema ritmico ma sdolcinato (mi viene in mente Elton John) che scivola via verso un gospel sentimentale. La musica classica è inevitabilmente presente con rimandi a Mahler (l’Adagetto dalla Quinta sinfonia) e a Bach. Uso frequente dei pedali, ottimo dinamismo, tecnica strepitosa : è sempre un piacere ascoltare Uri Caine. Nel ringraziare il pubblico plaudente, scorto in prima fila Evan Parker, gli rende omaggio con un applauso, sentendosi onorato che sia accorso ad ascoltarlo. Una modestia ed un’ammirazione sincera, difficile da trovare in un mondo musicale a volte roso dal cinismo e dall’invidia fra colleghi. Ma non è finita qui. Perché Uri concede ben cinque bis. Il primo, “The Bell”, sembra di capire faccia parte di questa nuova composizione contro Trump. Dopo il concerto mi rivelerà la sua disperazione verso una persona volgare, indegna di guidare gli Stati Uniti. Proseguendo, inserisce “New York, New York (Minnelli, Sinatra). C’è poi un brano molto bello, swingante, in cui affiora il limpido carattere del musicista. Eccellente una versione superveloce di “I mean you” di Thelonious Monk. Poi si siede letteralmente sopra la tastiera, le mani sulle corde, la percuote con i gomiti, scivola via con la “Marcia turca” di Mozart, spezzettata, swingante, grazie anche ad un fraseggio con la mano sinistra sulla parte bassa della tastiera. C’è poi un accenno, mi pare, a ”Nefertiti” di Wayne Shorter, mentre la conclusione poggia su un insistito soul-funk. L’ultimo gioiello è una versione sincopata, ritmica, ad ampio respiro di “Sweet Georgia Brown”. Alla prossima, Uri e grazie di tutto, mentre tanti lo avvicinano per una foto od una firma.

Il secondo ed ultimo concerto all’auditorium S.Margherita è stato il più breve di quelli a cui ho assistito. Sessantatre minuti sono bastati per proporre l’intero CD “Sélébéyone” (2016), titolo che dà anche il nome al settetto guidato dall’altosassofonista e compositore Steve Lehman. Come si legge nel programma di sala “Sèlébéyone in lingua wolof significa “zona di intersezione” e il gruppo, formatosi nel 2015, è proprio questo : un nuovo progetto di collaborazione che prende le sue origini e mette insieme intersecandoli rap senegalese, spectral music, jazz contemporaneo, hip-hop underground, interactive electronics e non solo, per creare una forma unica di sperimentalismo urbano. I musicisti suonando dal vivo non imitano campionamenti ripetitivi in 4/4. Al contrario, gli elementi musicali del gruppo – cambi ritmici, armonie elettroacustiche e sound design – sono completamente integrati con il contenuto lirico”. Personalmente, il rap è un genere che non seguo, né mi interessa approfondire i suoi significati, che presumo siano legati a testi di protesta. Comunque HPrizm, newyorkese e Gaston Bandimic, senegalese, hanno dialogato puntualmente tra loro, sospinti da un tappeto musicale di cinque validi musicisti, tra i quali spiccava il veterano Drew Gress al contrabbasso. Carlos Home alle tastiere si è espresso con suoni liquidi, scegliendo spesso un registro di piano elettrico, che ha richiamato la fine degli anni ’60 e la decade successiva, a cominciare dall’uso che ne ha fatto Miles Davis in “Bitches Brew”. Jacob Richards, di Los Angeles, alla batteria, al posto di Diamon Reid nel disco ( che imperversa nel web a interpretare i diversi brani come testimonial di una nota ditta di piatti) non lo ha fatto rimpiangere. Rapidissimo, delicato, ma aggressivo, un fraseggio jazz e Rock che ben si amalgamano, un’attenzione alle direttive, grazie agli spartiti che tutti d’altronde seguono, anche per riflettere su come improvvisare. Maciek Lasserre al sax soprano merita un plauso per alcune composizioni personali come “Origine”, che si alternano a quelle del leader. Che altro aggiungere? Che è la seconda volta che ascolto Steve Lehman dal vivo, senza provare nessuna emozione. La sua musica non mi innervosisce, ma mi annoia. Non mi sembra niente di nuovo o talmente bello da desiderare di ascoltarlo dal vivo né su qualsiasi supporto audio. Comunque la bravura non è in discussione, per un musicista che, come si scopre sul web, è anche un valente musicologo, autore di parecchi saggi/interviste a celebri colleghi come Anthony Braxton e Jack McLean.

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