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Militari italiani in Iraq: una gamba per difendere la Difesa

Ci rimettono chi una gamba, chi un piede, altri hanno ferite meno gravi. Riportano a casa la vita, ma a quale prezzo. Sono i cinque militari italiani (tre incursori della Marina, due parà) colpiti da uno Ied a Palkan, a sud di Erbil, nel Kurdistan iracheno.

 Appartengono alla missione ‘Prima Parthica’ che dal 2014 concentra un buon numero degli attuali 868 appartenenti all’operazione a preservare la diga di Mosul, sul fiume Tigri, mentre duecento addestratori sono impegnati a Baghadad e a Erbil. E’ il tragico epilogo di un pattugliamento in un’area controllata dai ‘peshmerga’, i locali combattenti kurdi che ricevono supporto militare, logistico e addestrativo dalle forze Nato. Sebbene la zona sia sotto la loro giurisdizione, la cacciata e la rotta dei miliziani dell’Isis dai territori denominati come Daesh non esclude possibili loro infiltrazioni e ritorni. Se siano stati costoro a piazzare le bombe è tutto da verificare. L’uso degli ordigni esplosivi improvvisati (traduzione dell’acronimo Ied) in territori di guerra è da tempo appannaggio di combattenti d’ogni tipo, anzi la resistenza diffusa utilizza simili strumenti di fabbricazione artigianale che risultano particolarmente subdoli quando vengono, ad esempio, celati in utensili o camuffati in pietre. Proprio diversi militari italiani ne sono rimasti vittime durante la missione Isaf in Afghanistan. Uno degli episodi più gravi accadde nell’ottobre 2010, l’anno orribile degli scontri a fuoco con la resistenza talebana. Provocò la morte di quattro alpini del 7° reggimento Belluno, fulminati dall’esplosione di Ied nel distretto del Gulistan, nella provincia di Farah.

Il nostro Paese continua a inviare militari in un numero sempre crescente di missioni di polizia internazionale. Attualmente le operazioni sono 37 (quasi la metà concentrata nel continente asiatico) e contano attorno ai settemila soldati dislocati in ‘aree calde’. Alcune risultano di aperto conflitto: schieriamo 868 soldati in Iraq, 800 in Afghanistan, 300 in Libia. Altre manifestano tensioni alterne, come il Libano, dov’è il raggruppamento più corposo: la missione Unifil che impegna 1.134 uomini e donne in divisa e risulta fra le spedizioni più costose assieme a quelle di Afghanistan e Iraq. Seguono la missione in Kosovo con oltre 500 soldati, quindi interventi minori sotto il centinaio di unità e l’operazione “Mare sicuro”. Settemila unità in divisa sono impiegate nei pattugliamenti sul territorio nazionale, quelli che osserviamo presso luoghi sensibili (ambasciate, uffici pubblici, fino alle stazioni ferroviarie e dei metrò). Non tutte lasciano la medesima percezione nei luoghi dove sono effettuate, non tanto verso un nemico conclamato (com’è il caso dell’Isis), bensì sui civili locali in certi casi avvertiti come avversi. E da questi talvolta ricambiati, a conferma d’una visione univoca di tali operazioni. Nell’ultimo biennio i costi deliberati dal Parlamento italiano per le missioni militari nel mondo sono cresciuti. Nel bilancio 2019 ammontano a un miliardo e quattrocento milioni di euro, con oltre un miliardo per la voce militare e 370 milioni di spese amministrative e di supporto. Una tendenza in esplicito rialzo che, al di là della partecipazione a piani politico-militari soggetti ai continui ordini dell’alleanza Nato, diventano l’alibi e un oggettivo puntello per conservare un apparato di difesa che - come sottolinea il Rapporto Milex sulle spese militari - risulterebbe non sostenibile.

Enrico Campofreda, 10 novembre 2019

articolo pubblicato su http://enricocampofreda.blogspot.it

 

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