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Migranti, l’ordine regna a Milano

A testa bassa. Sono usciti tutti. Prima le donne e le famiglie, un mese fa. Poi quasi ogni giorno un gruppo. 390 persone che vivevano a Milano ora non ci vivono più.

di Andrea De Lotto

In un primo momento sembrava che chi era iscritto a scuola o lavorava avrebbe avuto almeno la garanzia di restare in città e dare continuità al suo percorso, alle relazioni. Nulla di tutto ciò.

Ogni sera a qualcuno veniva detto: domattina tocca a te, firma qua. Fatti trovare pronto alle 7.30 con le tue cose. In alcuni casi veniva detta la destinazione, in altri no, per non “creare allarmi”… Brescia, Bergamo, Varese, Monza, San Colombano, ma qualcuno anche in centro Italia.

Ma sì. Cosa ce ne frega di dove vanno a scuola Samba o Moussa o Amidou. Cosa ci interessa se con la sua maestra o il suo maestro hanno sudato sette camicie insieme per dire “sono andato” invece che “andato”, “ho mangiato” invece che “mangiato”. Per capire che si dice “la mano” e non “il mano”, e “il mare” e non “la mare”, e avanti…. matite poco temperate che calcavano con forza fogli di un quaderno, magari iniziato al contrario.

In tante classi delle nostre scuole di Milano ci sono dei banchi vuoti. Qualcuno arranca e magari ci mette un’ora e più, ma continua a venire a scuola. Tiene duro, resiste. Si sente anche fortunato.

E noi ci vergogniamo. Ci vergogniamo di non aver puntato i piedi, di non aver alzato la voce. Con la scusa che “sono fragili”, “non dobbiamo creare tensioni”, “ci andrebbero di mezzo loro”, siamo stati zitti, li abbiamo accompagnati verso l’uscita.

Perdonateci, Sidiki, Omar, Kemo, Mamadou, Abdoulaye…. Abbiamo lasciato che vi portassero via.

Ora sta a noi, giovani e vecchi milanesi, giovani e vecchie lombarde. Oggi la prefettura avrà le chiavi di via Corelli 28. Il centro è stato svuotato, tutto è “andato bene”.

Dobbiamo fare quello che non abbiamo voluto o potuto fare fino ad ora. Dobbiamo impedire con tutte le nostre forze che quel luogo si ritrasformi in un carcere per immigrati. Un lager per persone che come unica colpa hanno quella di non avere un pezzo di carta.

Che nessun architetto si offra di disegnare le nuove sbarre di un campo di concentramento. Che nessun operaio entri a lavorare lì dentro, che nessun saldatore unisca due pezzi di metallo, che nessun elettricista colleghi le nuove telecamere, che nessun uomo si offra di fare la guardia dentro o fuori.

Quel CPR non si farà, né in via Corelli. né altrove.

La partita è importante: riguarda questi uomini e queste donne che cercavano e cercano fortuna e speranza nella nostra terra, ma riguarda anche noi.

Ne va della nostra dignità, presente e futura. Coraggio.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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