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Maschio: la metà incerta del cielo, per Arnaldo Spallacci

“Il genere maschile, dunque, è condannato a un destino bizzarro: se da un lato in base ad alcune rappresentazioni, costituirebbe il soggetto dominante del mondo che ha permeato di sé la direzione e il senso della storia, specie nell'età moderna, dall'altro pare contenere i germi che potrebbero provocarne la sparizione”

Questa secca considerazione, nella sua lapidarietà, esprime in poche righe uno dei fulcri del saggio Maschi del sociologo Arnaldo Spallacci (Il Mulino, Bologna, 2012, p. 115).
 
Anzi, forse, fornisce le basi per individuare la chiave di lettura più fertile del libro, proponendo al lettore di estrarre il tema della maschilità dalla – ormai abusata – logica della contrapposizione fra i due sessi, e di collocarlo nell’ambito della direzione che gli umani – i maschi, certo, ma insieme alle donne – si sono trovati a percorrere, o in cui sono stati spinti dal mutamento sociale nel suo complesso, e quindi del transito dalla modernità industriale alla condizione attuale.
 
Spallacci, in apertura del libro, parte da una osservazione importante: che, nella percezione comune, gli ultimi cinquant’anni siano stati pieni di pubblicazioni (scientifiche, divulgative, polemiche), discussioni, dibattiti che hanno posto al centro le donne, la loro condizione, le loro battaglie, e che invece degli uomini – dei maschi – si sia parlato ben poco. E subito annota che non è vero, almeno per quanto riguarda la ricerca, spingendo indirettamente il lettore a riflettere sullo scarto sempre forte fra senso comune (e “pensiero” dei media) e osservazione scientifica. Piuttosto, il pensiero maschile non spicca, perché risulta neutro, proprio perché la società lo pone come universale, e quindi finisce per essere “invisibile”, proprio perché coincidente con il mondo taken for granted di cui scrive Alfred Schutz.
 
Viene invece da pensare, come pure il sociologo bolognese afferma en passant, che forse i maschi hanno scelto di praticare il silenzio, o forse di mantenere un profilo basso, di riflettere sotto traccia, evitando di esplicitare la separazione del loro pensiero da quello “universale” – forse condizionati dalla dimensione della crisi che li avvolge, dal disorientamento contemporaneo, dal “liquefarsi” di rapporti sociali, visioni del mondo, identità. Oppressi dal non saper più svolgere un ruolo, quello del garante della razionalità, della responsabilità, dell’autorevolezza che la modernità gli aveva assegnato. E che le trasformazioni in corso stanno frantumando.
 
Nei fatti gli studi sul maschile originano già negli anni Settanta del secolo scorso, sull’onda della nascita dei movimenti di liberazione femminile, ma anche di quelli degli omosessuali, e hanno come fulcro le spinte alla emancipazione da ruoli – quelli classici attribuiti al maschio – ormai sentiti come oppressivi, incatenanti. Per articolare il suo ragionamento – e non lasciare zone d’ombra, data la delicatezza del tema – Arnaldo Spallacci riepiloga l’intera letteratura sull’argomento, a partire dagli studi sulle origini dell’organizzazione sociale umana, e quindi sul matriarcato, il passaggio al patriarcato, alla “guerra fra i sessi” evocata prima di tutto dai media nei decenni scorsi, fino ad arrivare ai giorni nostri. E fissa un punto di snodo cruciale per comprendere l’oggi: il passaggio dall’Ottocento al Novecento. In pratica, l’ingresso nella modernità della metropoli e dell’industria. La fase in cui si definisce il maschio come custode della razionalità, dell’energia, della certezza – in cui si specchia la donna seducente, misteriosa, irraggiungibile. Il pater familias che nel modello funzionalista di Talcott Parsons e Robert Bales che ne scrivono nel 1955, sarà il garante del benessere del nucleo familiare, titolare delle funzioni strumentali in seno al focolare domestico, lasciando alla donna quelle affettive (Parsons, Bales, 1974).
 
Ruolo che, un decennio dopo la pubblicazione del libro, comincerà a subire le prime incrinature violente da parte non solo delle femministe e dei movimenti giovanili, ma dalla trasformazione complessiva dei rapporti sociali, del mercato, dei bisogni – dalle sollecitazioni a riarticolare i propri stili di vita e di consumo per aderire a modelli nuovi, che mettono in primo piano il corpo, la sua estetica, la sua immagine. Come scrive Alberto Abruzzese (2012, p. 63), “La scena che ci inquieta è quella duplice e parimenti dolorosa in cui sentiamo che il nostro corpo, il suo apparire alla presenza dell’altro, non viene giudicato bello, oppure il corpo, che a noi appare bello, si ritrae e ci nega. Avvenuta l’alchimia del desiderio, belli o brutti che si sia, la recita segue il copione sociale di una continua approssimazione alla bellezza. Su questa dinamica hanno prosperato le fabbriche ed i mercati dell’abbigliamento, della cosmetica, della ginnastica, della chirurgia estetica”.
 
Una rivoluzione rivolta anche agli uomini, e non solo alle donne, come vorrebbero banalmente senso comune e verità giornalistica.
 
E come viene performato nel serial Tv che descrisse in pieno questa frattura col passato: quel Sex and the City che oltre a rompere definitivamente la censura del sesso e del suo discorso (Brancato, 2010), volendo mettere in scena le nuove donne disincantate, propositive, emancipate, contemporaneamente evocava, esibiva maschi incerti, piagnoni, “piacioni”, ipocritamente arrendevoli e falsamente autoriflessivi.
Rivoluzione che però ne mette in scacco le certezze consuete, gli ancoraggi classici. E sfocia in un periodo di deresponsabilizzazione e infantilizzazione che a leggere Jean Baudrillard (1990) e Pascal Bruckner (2001) ha forse il suo picco negli anni Ottanta – l’orgia di cui scrive Baudrillard – e trascina la sua deriva fino all’oggi, alla tarda modernità, alla soglia, secondo alcuni, di un postumanesimo di cui però è ancora difficile intravedere le forme e gli esiti. Se si esclude il fallimento storico, epocale, delle presunzioni degli uomini nati con la modernità (Abruzzese, 2011). E che si riflettono sulle coppie contemporanee, in termini di conflittualità latente e incapacità di costituire legami durevoli, stabili, soddisfacenti (Donati, 2012).
Una deriva “apocalittica” (Maffesoli, 2009) che vede il riorganizzarsi magmatico e caotico di tutti i rapporti affettivi, delle stesse classificazioni e distinzioni fra i sessi, tanto che Anthony Giddens, in La trasformazione dell’intimità (1995) – che Spallacci giustamente cita – per ragionare sulle nuove dimensioni della sessualità e del’intimità, prende ad esempio le relazioni affettive fra omosessuali, piuttosto che quelle tradizionali.
 
Mutamenti su cui Arnaldo Spallacci si sofferma, mettendo in evidenza come questi si accompagnino da parte dei maschi a disorientamento, inconsapevolezza, disimpegno – estrema difficoltà di riconoscersi in un mondo in cui il ruolo maschile classico sparisce, mentre una nuova definizione identitaria stenta ad emergere. Fino ad entrare in conflitto con una delle funzioni cardinali del proprio ruolo: l’educazione dei figli. L’autore di Maschi, dopo aver ricordato come sia diventata più forte la richiesta di affettività rivolta a costoro rispetto al ruolo tradizionale, afferma: “I maschi oggi hanno difficoltà a «personalizzare» in senso affettivo il rapporto con i figli, perché non vi sono ancora preparati in conseguenza della loro socializzazione originaria, orientata piuttosto a una comunicazione «fredda», impersonale, razionale…” (p. 75), mancando così al compito di trasmettere a questi visioni del mondo, principi, compiti. Padri assenti, invisibili; figli distanti, disincantati.
 
Le parole di Spallacci sembrano riecheggiare quelle di un altro sociologo, Gianfranco Pecchinenda, che nella nota introduttiva ai suoi racconti sul padre raccolti in L’ombra più lunga (2009), scrive: “Padri e figli: le architetture culturali ambirebbero a creare soffici e rassicuranti immediatezze tra queste due fondamentali figure umane; la natura, però, pretende l’edificazione di una distanza di sicurezza, alimentata dalla presenza di una sorta di sospetto, un senso di colpa reciproco che si rinnova attraverso i pretesti più incomprensibili…” (p. 9).
 
Ma proviamo a riordinare le cose, a depurarle del superfluo – denunciando comunque la pertinace propensione oppressiva, prevaricatrice che gli uomini hanno avuto e spesso hanno ancora nei confronti delle donne, elemento intrinseco delle formazioni sociali finora storicamente date, e oggi effetto malsano dell’incapacità ad accettare il cambiamento (o tratto arcaico di culture integraliste) – e torniamo ad uno dei punti di partenza del libro: la definizione del ruolo maschile a partire dal primo Novecento. Cui segue subito il suo incrinarsi. Sembra quasi – e la grande letteratura del periodo, specie quella di lingua tedesca, da Robert Musil, a Thomas Mann, a Franz Kafka, fino a Gottfried Benn – che con la sua nascita emergano i semi della sua caduta. La fase terminale della parabola del soggetto nato con l’Umanesimo, almeno come ritiene John Carroll, sociologo “eretico” che, in Il crollo della cultura occidentale (2009) sostiene che già alla nascita della modernità, fra Umanesimo e Protestantesimo, si definiscano i germi della sua fine. Quella cui staremmo assistendo oggi. In questo senso, il ruolo – i ruoli – maschile e femminile forse si ridefiniranno a partire da una nuova intimità, da una scoperta di affettività finora inesplorate, da una maschilità e femminilità che diano senso ad un mito mai svanito, quello dell’amore impossibile di Tristano e Isotta, Romeo e Giulietta, arrivato fino ad oggi in infinite versioni (de Rougemont, 2009).
 
Perché qui è in gioco – attraverso coloro che hanno avuto l’onere di rappresentarla, interpretarla, dirla: i maschi – il destino di un’intera civiltà, quella occidentale moderna, dei suoi uomini, delle sue donne. Un esito che ci riguarda e accomuna tutti.
 
A meno che non si condivida l’auspicio di Pasavento, il protagonista di un romanzo di Enrique Vila Matas (2008, p. 206, corsivo nostro), che rimanda direttamente alle parole usate da Arnaldo Spallacci: “… mi dedicai a convincere me stesso che era perfetto essere uno scrittore dimenticato. E tornai a ricordare quella che ormai era diventata la mia frase preferita di Walser: «Riesci benissimo a vivere senza che nessuno si ricordi nemmeno lontanamente della tua esistenza». E mi dissi che vivere in quel modo significava conoscere costantemente un’esperienza di tranquillità e di morte. Quando questa, per certo, fosse arrivata, sarebbe stata come la vita. In fondo vivere in quel modo […] mi metteva di fronte alla possibilità di avere una visione del futuro, poter vedere forse un giorno quello che si potrà vedere dopo la scomparsa del soggetto in Occidente”.
 
Letture
Abruzzese A., Il crepuscolo dei barbari, Bevivino, Milano, 2011.
Abruzzese A., La bellezza per me e per te, Luguori, Napoli, 2012.
Baudrillard J., La trasparenza del male, Sugarco, Milano, 1990.
Brancato S., La forma fluida del mondo, Ipermedium, S. Maria C.V., 2010.
Bruckner P., La tentazione dell’innocenza, Ipermedium, Napoli, 2001.
Carroll J., IL crollo della cultura occidentale, Fazi, Roma, 2009.
de Rougemont D., Nuove metamorfosi di Tristano, Ipermedium, S. Maria C.V., 2009.
Donati P. (a cura di), La relazione di coppia oggi, Erickson, Trento, 2012.
Giddens A., La trasformazione dell’intimità, Il Mulino, Bologna,
Maffesoli M., Apocalisse. Rivelazioni sulla società postmoderna, Ipermedium, S. Maria C. V., 2009.
Parsons T. Bales R. L., Famiglia e socializzazione, Mondadori, Milano, 1974.
Pecchinenda G., L’ombra più lunga, Colonnese, Napoli, 2009.
Vila Matas E., Dottor Pasavento, Feltrinelli, Milano, 2008.
 
di Adolfo Fattori

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