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Made in Italy, sapienza in quiescenza e fondelli sovrani

Vita in provincia sovrana: arriva un vero e proprio testo unico del Made in Italy, incluso un fondo lillipuziano, mance di filiera e pensionati formatori

 

La prossima settimana il consiglio dei ministri dovrebbe approvare il disegno di legge relativo al cosiddetto Made in Italy, espressione in palese contrasto con la ritrovata orgogliosa autarchia linguistica di cui i patrioti della maggioranza si fregiano (da cui la gagliarda espressione “me ne fregio”). Dalle prime bozze circolate, pare che questo Ddl sarà un contenitore di aspirazioni nazional-identitarie e una rinfrescante cascatella di fondi ed erogazioni in modalità mancia. Ma, per non farsi mancare nulla, si torna a parlare del mitologico “fondo sovrano” tricolore.

Un tema che torna carsicamente, avvolto nella bandiera delle buone intenzioni e di un nazionalismo rigorosamente munito di pezze al culo. Non tornerò sull’equivoco linguistico di cosa dovrebbe essere un “fondo sovrano”. La definizione classica era quella di fondo alimentato dalle risorse derivanti dall’export di materie prime, soprattutto energetiche, da parte di aziende pubbliche. Quindi diciamo che non saremmo noi.

IL FONDO SOVRANO ALL’ITALIANA

Di recente, l’Irlanda ha messo in pista l’idea di una versione del fondo sovrano alimentato dall’extra-gettito delle imprese, per costituire risorse che possano attutire eventi avversi futuri, come il declino demografico oppure la stessa volatilità del gettito aziendale, o anche per ripagare il debito. Ricordiamo che l’Irlanda, in virtù del suo sistema fiscale molto “leggero” e “peculiare”, si fa pagare le tasse da molte multinazionali occidentali. Quest’anno c’è stato un boom di gettito, motivo per cui il governo di Dublino ha deciso di provare ad accantonare l’eccedenza e creare un fondo che gli anglosassoni chiamano di “rainy days“. Direi quindi che neppure questa appare la fattispecie tricolore.

Ricordo che anni addietro vi fu una singolare proposta, elaborata da un esponente di Forza Italia, Sestino Giacomoni, per la creazione di un “fondo sovrano” alimentato dalle risorse (a debito) del PNRR e da sottoscrizione di risparmiatori italiani. Come descriveva Giacomoni all’epoca:

L’obiettivo del Fondo sovrano inizialmente dovrebbe essere di investire risorse del Recovery Fund e risparmi privati in progetti concreti per sostenere e far ripartire il sistema produttivo, ma l’auspicio è che -subito dopo, grazie al ritorno degli investimenti effettuati- il fondo possa indirizzare i risparmi privati degli italiani anche verso acquisizioni estere, avendo come modello di riferimento il fondo sovrano norvegese.

Quindi, come vedete, si parte a debito e si finisce a scalare aziende estere, in un carpiato che avrebbe fatto impallidire Re Mida. Questa idea che gli italiani siano convinti che possa esistere un “fondo sovrano”, dove l’aggettivo suggerisce autonomia e libertà da vincoli esterni, usando il debito dovrebbe essere studiata nei dottorati di filosofia. O di psicologia.

Nel 2021 nacque, nella cornice del Decreto Rilancio, il concetto del cosiddetto “patrimonio destinato“, che dà un po’ l”idea di qualcosa di ineluttabile e senza lieto fine. Una sorta di final destination finanziaria. Impegnati 44 miliardi di debito pubblico per una durata di 12 anni per interventi di cosiddetto turnaround, ovvero rilancio, entro la cornice temporanea dell’allentamento dei vincoli agli aiuti di stato in periodo pandemico. La mia domanda restava sempre quella: non basta il settore privato per raccogliere capitale destinato al rilancio? Ah, saperlo.

Oggi, col ddl Made in Italy, che è un grande scatolone con carta tricolore, ci riproviamo. Secondo la bozza:

Un fondo sovrano per supportare la crescita e il consolidamento delle filiere strategiche nazionali, anche nell’approvvigionamento di materie prime. Lo prevede una bozza del ddl Made in Italy in cui si autorizza il Mef ad investire, a condizioni di mercato, nel capitale di imprese nazionali. L’investimento è realizzato tramite l’acquisto o la sottoscrizione di azioni o altri strumenti finanziari dei veicoli societari o fondi di investimento o attraverso altri strumenti di coinvestimento, per un “importo massimo” nella bozza non ancora definito. Non sono quantificati al momento nemmeno gli oneri per far fronte al meccanismo. (Ansa, 17 maggio 2023)

Mi colpisce questo riferimento all’approvvigionamento di materie prime. Forse stiamo pensando di creare l’equivalente nostrano delle varie Trafigura, Vitol, Cargill eccetera? Mi pare programma di enorme ambizione o incoscienza/ignoranza. Pare sia prevista la compartecipazione del settore privato, che dovrebbe essere garanzia di non buttare i soldi nello sciacquone salvando imprese decotte. Almeno, lo spero.

Ma parliamo dei soldoni del fondo sovrano: quanti? Si dice mezzo miliardo, forse un miliardo. Con partecipazione privata potremmo arrivare a pareggiare questo importo. Forse arriveranno le assicurazioni e le casse previdenziali, alle quali magari il governo ha promesso gli agognati alleggerimenti fiscali che servirebbero a non falcidiare i rendimenti del risparmio previdenziale in corso di formazione.

Ma sono e restano pochi spiccioli. Entro o fuori questo fondo dovrebbe operare il famoso sub-fondo di filiera (argh). Ma quali? Le solite?

Istituito presso il Ministero del made in Italy con una dotazione di 60 milioni per il 2024. Lo prevede una bozza preliminare del ddl sul Made in Italy. Sarà un decreto del Mimit da adottarsi entro 60 giorni dalla data di entrata in vigore del ddl a stabilire la ripartizione delle risorse, individuare i soggetti beneficiari, le modalità di attuazione della misura nonché il soggetto in-house incaricato della relativa gestione.

La bozza del ddl prevede in particolare misure per valorizzare alcune specifiche filiere. Per la filiera legno-arredo 100% nazionale e valorizzazione della filiera delle fibre tessili naturali, si prevede che il Mimit promuova e sostenga “la vivaistica forestale, la creazione e il rafforzamento di imprese boschive e dell’industria della prima lavorazione del legno attraverso l’incremento del livello tecnologico e digitale delle imprese e la creazione di sistemi di produzione automatizzati lungo la catena produttiva, dai sistemi di classificazione qualitativa, ai sistemi di incollaggio”. Inoltre per la valorizzazione della filiera delle fibre tessili naturali, il Mimit “promuove e sostiene sul territorio nazionale le condizioni per la ricerca, la sperimentazione e l’innovazione dei processi di produzione di fibre di origine naturale”.


Il ddl prevede inoltre misure di semplificazione per la filiera della nautica e disposizioni in materia di approvvigionamento di materie prime critiche della filiera della ceramica e (ma questa è ancora in valutazione) disposizioni per la filiera dei prodotti orafi. (Ansa, 17 maggio 2023)

Ecco. Quindi: un fondo “sovrano” non si sa da quanti soldi (mezzo miliardo o un miliardo), creato presso il MEF che quindi svolgerebbe le mansioni sin qui svolte da CDP Equity, e un fondo-filiere presso il Mimit (quello dall’onomatopea come lo struzzo del cartone animato), impegnatissimo a far piovere soldi (ma non troppi) su alcuni settori. Anche qui, direi che siamo in modalità nozze coi fichi secchi, e peraltro non è chiarito se si tratti di fondo perduto, tasso agevolato o “capitale paziente”. Però la patria filiera è salva.

RISTORANTI ITALIANI CERTIFICATI

Ma nel Ddl Made in Italy è presente anche altro, molto altro. Ad esempio, il “bollino” per i ristoranti italiani nel mondo. Recita la bozza diffusa nei giorni scorsi:

Al fine di valorizzare e sostenere gli esercizi di ristorazione che offrono all’estero prodotti enogastronomici effettivamente conformi alle migliori tradizioni italiane all’estero e di contrastare l’utilizzo speculativo dell’Italian sounding, i ristoratori situati all’estero possono chiedere la certificazione distintiva di “ristorante italiano nel mondo”.

Una cosa che Guida Michelin e TripAdvisor scansate, proprio:

La certificazione è rilasciata, su istanza del ristoratore, da un ente certificatore accreditato presso l’organismo unico di accreditamento nazionale italiano, sulla base di una tariffa approvata e di un disciplinare adottato con decreto del Ministro delle imprese e del made in Italy, di concerto con il Masaf che individua i requisiti e le specifiche per il rilascio della certificazione stessa, con particolare riferimento all’utilizzo di ingredienti di qualità e di prodotti appartenenti alla tradizione enogastronomica italiana, a denominazione di origine protetta, a indicazione geografica protetta, a denominazione di origine controllata, a denominazione di origine controllata e garantita e a indicazione geografica tipica.

Il Masaf non è una tribù africana civilizzata dal generale Rodolfo Graziani a cui alcuni, nel partito di maggioranza relativa, mandano deferenti pensieri, ma il Ministero dell’Agricoltura, Sovranità alimentare e foreste.

Sono in attesa di capire se verrà creato un albo degli assaggiatori certificatori e certificati, il cui compito sarà appunto quello di viaggiare per il mondo per assegnare l’agognato bollino al ristoratore che vorrà fregiarsi di questa qualifica, magari con un bel logo alato in stile ventennio. Dai navigator ai magnator, in pratica. Ma, come detto, credo che Guida Michelin, Gambero Rosso (quindi comunista radical-chic, direbbe qualcuno della maggioranza), e TripAdvisor saranno messi in grande difficoltà. Soprattutto se dovessero assegnare giudizi lusinghieri a qualche locale che, sperimentando, “imbastardisce” la nostra tradizione e i nostri severissimi canoni. Dalla certificazione all’azione legale, il passo è breve.

Perché ti chiami ristorante italiano e non hai chiesto la certificazione? Eh? Eh? Cosa hai da nascondere? Ora mandiamo i nostri assaggiator a verificare in incognito. “No, questo locale a Manhattan non può definirsi Made in Italy perché non usa prodotti di filiera certificata. Anzi, ora lo portiamo a giudizio con l’accusa di Italian Sounding”. Già vedo l’apposita sezione dell’Avvocatura dello Stato impegnata allo spasimo a colpi di carta bollata e spaghetti in giro per il globo terracqueo. Penso che in questo caso nasceranno catene di ristoranti italiani ribelli all’estero federati in un logo potente, che suggerisco al Masaf di brevettare prima che sia troppo tardi: “Esticazzi Does It Better“.

SAPIENZA STAGIONATA

Nel Ddl pare ci sarà anche un’altra misura qualificante: il cosiddetto “trasferimento di competenze intergenerazionali”. Prevede che i datori di lavoro privati con almeno 50 dipendenti possano stipulare, per l’anno 2024, un contratto di durata massima 24 mesi con un lavoratore andato in pensione da non oltre due anni che “si impegna a svolgere, presso l’azienda, attività di tutoraggio, per un massimo di 60 ore mensili, in favore di giovani, di età inferiore a 30 anni, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato”. Che diventano 35 anni se laureati. Pare che il compenso del tutor sarà esente da imposte e contributi sino a 15 mila euro annui.

Ora, sono curioso di conoscere quali saranno queste competenze da traghettare. Forse quelle digitali? Ho qualche dubbio “generazionale” ma non vorrei essere discriminatorio ai danni dei boomer. Oppure competenze artigiane, come pare essere nelle corde di questo confuso esecutivo da piccolo mondo antico? Ma soprattutto, interessante questo testacoda: da un lato, l’attuale maggioranza spinge per i pensionamenti anticipati, per permettere a tutti di perseguire i propri “progetti di vita”. Poi ci sono le aziende, che puntano a liberarsi dei nativi analogici e questi ultimi che ambiscono a non farsi stressare troppo la vita e chiedere una pensione di inabilità digitale. Quindi, chi saranno questi tutor generazionali dotati di competenze da non disperdere e sempre attuali, anche se sono usciti un paio di anni addietro?

Nell’attesa di saperlo, voi non siate maliziosi e non fatevi venire idee strane: non si tratta di far emergere situazioni in cui c’è gente che va in pensione (anticipata) e poi torna in nero, fidatevi. Né si potrebbe risolvere il tema del recupero della sapienza dei seniores chiedendo a quest’ultimi di aprire una partita Iva. Troppa burocrazia e troppe tasse, anche se fossero nel forfettario. E noi con questo esecutivo stiamo lottando contro ‘aaa burocrazzzia, come noto.

Io resto sempre perplesso: vorrei capire quali sono le aziende non così piccole, almeno 50 dipendenti, che assumono a tempo indeterminato per fare fronte ai loro programmi di sviluppo o mantenimento, e si accorgono di aver problemi di formazione e affiancamento dei nuovi assunti stabili, al punto da dover richiamare i preziosi e anziani saggi che hanno appeso la loro scienza al chiodo nei due anni precedenti. La programmazione, nemica del genio italico.

Ma non temete: nell’attesa, avremo la trasformazione dell’indirizzo economico sociale del liceo delle scienze umane nel liceo del Made in Italy. Attendiamo i programmi. Il 15 aprile sarà poi il giorno del Made in Italy ma i costruttori di ponti a campata multipla non si eccitino: sarà lavorativo.

Che dire di questo Ddl corposo, con ben 47 articoli, e che promette o minaccia di essere il “testo unico” del Made in Italy, di qualsiasi cosa si tratti? Che rischia di essere il solito peto multistadio di un paese sempre più smarrito ma con una maggioranza pro tempore che ha deciso di “intervenire sulla narrazione” e farci un po’ ridere, per ingannare il tempo.

Torna a valere l’eterna e fulminante epigrafe romanesca, che Gianni Brera riportò alla luce:

Noantri semo poveri e gite nun ne famo. La domenica si sta a casa. Nostro padre legge il giornale. Ogni tanto tira du’ scorregge e noi tutti intorno a ride.

Nel nome d’aaaa nazzzione.

 

Questo articolo è stato pubblicato qui

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