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MPS Monte dei Paschi di Siena, l’eterno ritorno dell’uguale

Nella lunga storia di interventi pubblici d'insuccesso, la banca divenuta altoforno di soldi dei contribuenti rischia di finire il gas

 

Nuova puntata della saga infinita di Banca Monte dei Paschi. La banca, come noto, deve affrontare l’ennesimo “decisivo” aumento di capitale, per 2,5 miliardi di euro, pari a circa 8 (otto) volte la sua capitalizzazione corrente. Nelle parole dell’ennesimo amministratore delegato, Luigi Lovaglio, l’aumento si rende necessario “per garantire una adeguata patrimonializzazione alla banca, anche in un’ottica prospettica”, oltre che per tagliare costi (soprattutto di personale) per 270 milioni di euro stimati e ridurne l’incidenza sui ricavi, al 2024, ad un 60% che non sarebbe esattamente da podio ma sempre migliorativo del pesante 71% di fine 2021.

CERCANSI PRIVATI DISPERATAMENTE

Circa un terzo di questo aumento di capitale deve andare a spesare le uscite di 3.500 dipendenti, con scivolo di sette anni verso la pensione, anche considerando che la banca non può “tirare” da sola il fondo interbancario per i prepensionamenti al punto da prosciugarlo.

Quale è la criticità? Che occorre trovare qualcuno disposto a mettere i soldi insieme al Tesoro. Cioè il 36% di 2,5 miliardi di euro. Chi potrà essere? Si parla di due investitori di peso con i quali la banca senese ha già accordi commerciali: i francesi di Axa (assicurazioni), azionisti dal 2017 col 4,3%, e Anima (risparmio gestito). Si parla o si parlava, visto che a undici giorni dalla data di probabile avvio dell’aumento di capitale, tutto è avvolto dalla nebbia.

La domanda resta sempre quella: per quale motivo un partner commerciale dovrebbe diventare azionista? Come nella fiaba di Trenitalia-Alitalia, se ricordate. Forse per estrarre maggiori ricavi dagli accordi distributivi, direte voi. Verissimo, ma la manovra non sarebbe esente da rischi. Prendiamo il caso di Anima, asset manager tricolore che suscita la preoccupazione dei patrioti della prossima maggioranza di governo perché potrebbe finire sotto il controllo di qualche entità francese tipo Amundi. Il risparmio italiano potrebbe quindi fuggire nella Valle della Loira e laggiù trovare i turisti che volevano venire nel Belpaese ma sono stati dirottati da Air France.

Che vorrebbe Anima, esattamente? Un aumento della durata degli accordi commerciali con Siena, un aumento della quota commissionale sul collocamento dei propri fondi da parte di MPS? Bene, ma bisogna considerare che le banche operano un modello di business distributivo del risparmio gestito del tipo multimarca, detto anche “architettura aperta”.

In altri termini MPS, ammesso e non concesso che riesca ad aumentare la clientela a cui gestisce il risparmio, rischia di legarsi le mani in una sorta di “monomarca” o comunque una marca prevalente, che finirebbe con l’essere controproducente e andrebbe contro il modello di mercato. Un discorso simile, pur se non identico in complesso e meno problematicamente vincolante, varrebbe per la bancassicurazione con Axa.

C’È QUALCOSA DI NUOVO, OGGI NELL’ARIA. ANZI, DI DECREPITO

Se dovesse sfumare questa coppia di azionisti privati, che fare? E qui inizia, o meglio torna, il solito tormentone della banca senese. In queste ore girano i soliti stilemi già visti almeno negli ultimi tre lustri anche per altre banche cadute in dissesto. Vediamo allora le variazioni sul tema, o meglio l’eterno ritorno.

Ad esempio, le fondazioni bancarie toscane. Ma perché, poi? Per ridurre la diversificazione degli investimenti e aumentare il rischio, ad esempio geografico? Dove sta scritto che una fondazione di origine bancaria debba investire in altre banche? Non pare un’idea da Nobel, ictu oculi.

Oppure le casse professionali italiane, quelle che devono garantire le pensioni dei professionisti con gestioni professionali e altamente diversificate? Anche qui, per quale motivo? Mi sembra, fatte le debite proporzioni, la saga di Atlante. Ricordate? Solo che quella era un’ipotesi di gestione di sofferenze bancarie “di sistema”, non di accollo di una banca in corso di ridimensionamento strutturale e alla ricerca di un ruolo, sempre che ne abbia ancora uno. Ma forse, e anche qui è un déjà vu, le casse ordinistiche potrebbero usare questa operazione come merce di scambio per ottenere, ad esempio, benefici fiscali sul risparmio previdenziale degli associati e maggiore autonomia.

Altra ipotesi “di sistema”: fare sottoscrivere la quota privata alle banche italiane, magari attraverso il Fondo interbancario di tutela dei depositi, che ha già fatto una cosa del genere con Carige. Dopo la sentenza europea che ha dato torto a Margrethe Vestager sull’uso di questo veicolo “privatistico”, e il conseguente tripudio dei vertici del sindacato dei banchieri, da sempre impegnati in una strenua lotta contro il bail-in al punto da battezzarlo come “caduto in desuetudine“, ha preso corpo la solita maledizione: “attenti a ciò che desiderate: potrebbe avverarsi”.

L’OMBRA DI UN NUOVO BURDEN SHARING

Anche qui, dunque: perché le banche italiane dovrebbero consorziarsi per sottoscrivere l’aumento di capitale MPS in quota “privati”? Boh, però il tema ritorna, come tutto quello che riguarda questo Belpaese della marmotta. Detto incidentalmente, alcune banche dovrebbero partecipare al cosiddetto consorzio di garanzia e collocamento durante l’aumento di capitale. Cioè sottoscrivere le azioni in attesa di cederle sul mercato.

E se il mercato non le volesse, quelle azioni? Le banche del consorzio diverrebbero azioniste obtorto collo. Perché, vedete, va bene fare il consorzio di garanzia, ma con l’obiettivo che tale “garanzia” non si concretizzi. Altrimenti, ci si sfila, si taglia l’importo massimo da garantire o si mettono costi di consorzio proibitivi, per rischio elevato. Che è quello che pare stia accadendo in queste ore.

Senza aumento, ad esempio, potrebbe tornare l’ipotesi di azzeramento dei bond subordinati emessi dalla banca senese, il cosiddetto burden sharing. E allora ecco l’idea: andiamo a chiedere agli attuali obbligazionisti subordinati di MPS di mettere un chip sull’aumento di capitale per proteggere i loro bond. Che bei subordinati avete, sarebbe un peccato se accadesse loro qualcosa.

Poi ci sono gli espedienti di disperazione. Ad esempio, dichiarare l’aumento di capitale come “scindibile”, nel senso che il Tesoro si porta avanti e sottoscrive il suo 64%, e poi si vede per i privati. Ma questa soluzione mi pare contrasti con lo spirito del salvataggio negoziato dal governo Gentiloni con la Commissione Ue: quello di una soluzione di mercato. Se all’aumento partecipa solo, pro-quota, il Tesoro, che soluzione di mercato sarebbe?

Ricordo che siamo giunti qui dopo esserci chiesti, per anni, quale privato avrebbe sottoscritto un eventuale aumento di capitale prima della riconsegna della banca al mercato. In passato abbiamo letto, ad esempio, di emissione di debito a subordinazione profonda, tale da essere considerato quasi capitale, e sottoscritto dal mercato. Ipotesi sfumata. Il motivo lo lascio alla vostra immaginazione. Ma anche di improbabili fondi di private equity, ipotesi che aveva fatto la sua prima comparsa durante la fase acuta del dissesto senese, un quindicennio addietro. Tutto torna, tornerà anche questa.

GLI ALTOFORNI DELL’INTERVENTO PUBBLICO

Poi, certo, la sfortuna ci vede benissimo, questo è il peggior momento possibile per una ricapitalizzazione, e così spero di voi. “Nessun momento è quello giusto”, come dico da sempre. Alla fine, come avevo vaticinato tempo addietro, la soluzione “guai ai vinti“, con lo Stato che appronta una robusta dote per il “capitalista” banchiere che decide di prendersi il rischio MPS ma senza rischio, era quella utile a creare uno stop-loss al sanguinamento dei contribuenti. Il futuro è già scritto. Ma che ve lo dico a fare?

Nel mezzo, la politica, nazionale e locale. Quella che brama di “farsi una banca”, che vaneggia di leggendari “territori” che, senza una banca propria, finirebbero morti di fame e sete creditizia (certo, come no). E poi la fusione con altre banche dissestate, il ruolo di bad bank di sistema da far diventare formale e non solo fattuale, e tante altre assurdità che sono il prodotto tipico della via italiana agli aiuti di stato.

Una tradizione di distruzione di risorse fiscali che neppure le transenne europee riescono a contenere. L’importante poi è lagnarsi dei tedeschi e dei loro aiuti di stato, giusto?

  • Aggiornamento del 13 ottobre: trovati gli azionisti, rassicurate le banche del consorzio di “garanzia” che garantiva entro dati limiti, l’aumento iperdiluitivo parte. C’è una robusta partecipazione di Axa, c’è Anima che mette un chip da 25 milioni per tentare di schivare danni d’immagine oltre che economici da un nuovo dissesto senese, ci sono Algebris e altri a difendere i propri subordinati del Monte. C’è anche la Fondazione MPS, che avrebbe prenotato azioni per ben 10 milioni, e arruffa le penne col sindaco di Siena che avrebbe divulgato l’entità dell’impegno. E la nave va, sino ai prossimi scogli. Continua, al solito.

Foto Wikimedia

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