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 Home page > Attualità > Economia > Lo slow working della PA: le radici della paralisi italiana

Lo slow working della PA: le radici della paralisi italiana

di Luigi Oliveri

Egregio Titolare,

Il prezzo di un lavoro agile nella PA improvviso e improvvisato non può che essere pagato in termini di efficienza operativa. Il Sole 24 Ore del 22 aprile 2020 ne dà conto in due articoli, uno a firma di Giorgio Santilli “Coronavirus – Stato e Comuni chiusi per Covid – Bloccati pareri, licenze, progetti”, l’altro di Fabio Cintoli “Nel Dl cura Italia non c’è l’alibi per fermare tutto”.

Sotto accusa l’articolo 103 del d.l. 18/2020 e la sua applicazione a volte capziosa. La norma ha disposto la sospensione di tutti i procedimenti amministrativi fino al 15 aprile 2020, termine ulteriormente prorogato al 15 maggio 2020 dall’articolo 37 del d.l. 23/2020.

Da molte amministrazioni, tale sospensione è stata interpretata come un’autorizzazione ad un completo “fermo macchine”. Così, molti procedimenti amministrativi restano congelati e fermi, compresi quelli fondamentali per le attività economiche, legati all’avvio di attività edilizie ed imprenditoriali.

A ben vedere, Titolare, lo scopo della norma non è affatto quello di bloccare gli iter delle pratiche. Infatti, lo stesso articolo 103 contiene una previsione che obbliga le pubbliche amministrazioni ad adottare ogni misura organizzativa idonea ad assicurare comunque la ragionevole durata e la celere conclusione dei procedimenti, dando priorità a quelli da considerare urgenti, anche sulla base di motivate istanze degli interessati.

Quindi, l’articolo 103 non ha inteso fermare l’azione amministrativa, ma non considerare come inadempimento l’eventuale sforamento di termini scadenti nella fase del lockdown. Un approccio realistico ad un problema operativo reale: l’attivazione dello smart working generalizzato nella pubblica amministrazione è necessariamente zoppicante, come del resto presagito da questi pixel (e non ci voleva un genio).

Perché questa zoppia? Per almeno due motivi. Il primo è certificato dallo stesso Legislatore: la pubblica amministrazione non si è dotata di reti virtuali (VPN) per consentire il lavoro da remoto, né di laptop, smartphone e soprattutto applicativi informatici pienamente idonei allo scopo, tanto è vero che col lavoro agile di emergenza introdotto in questi mesi ha chiesto/imposto ai dipendenti di utilizzare i loro strumenti informatici e di connessione.

Il secondo è un ben più grave problema di carattere organizzativo. Non si parla solo della carenza gravissima, atavica e fortemente incidente sulla produttività e cioè l’assenza di una metrica del lavoro capace di programmare prodotti e modalità e tempi per conseguirli (il che nega nella PA una reale capacità di valutazione dei risultati), ma dell’assenza di un sistema di gestione dei procedimenti amministrativi integralmente informatizzato e gestito appunto su piattaforme web.

I due articoli de Il Sole 24 Ore citati prima evidenziano che in molti casi le procedure edilizie e commerciali nei comuni si sono fermate sia a causa dell’erronea lettura dell’articolo sulla sospensione dei procedimenti come di un’autorizzazione ad incrociare le braccia, sia su carenze strutturali: moltissima documentazione necessaria per le istruttorie è in forma cartacea, conservata (spesso malamente) in archivi che possono essere gestiti necessariamente in presenza, cosa che con lo smart working diviene più difficile e lenta.

Come dice, Titolare? Ma non esiste una regola che imponga alla PA a gestire le pratiche in modo informatico, negli anni 2000? Ma certo che esiste.

Ricorda, Titolare, la legge “anticorruzione” e tutto il complesso e pletorico apparato normativo che ne è conseguito? Ebbene, l’articolo 1, comma 30, della legge 190/2012 contiene la seguente regoletta:

Le amministrazioni, nel rispetto della disciplina del diritto di accesso ai documenti amministrativi di cui al capo V della legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni, in materia di procedimento amministrativo, hanno l’obbligo di rendere accessibili in ogni momento agli interessati, tramite strumenti di identificazione informatica di cui all’articolo 65, comma 1, del codice di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, e successive modificazioni, le informazioni relative ai provvedimenti e ai procedimenti amministrativi che li riguardano, ivi comprese quelle relative allo stato della procedura, ai relativi tempi e allo specifico ufficio competente in ogni singola fase.

È evidente, Titolare, che, per rendere accessibili agli interessati le informazioni sugli stati dei procedimenti “in ogni momento”, senza nemmeno la necessità di un’istanza, tutti i procedimenti dovrebbero essere informatizzati pienamente, così da poter essere non solo gestiti in via informatica ma creare un vero e proprio tracciamento, accessibile dall’esterno, come per le spedizioni postali o dei siti di e-commerce.

Se non bastasse questo obbligo indirettamente posto dalla legge anticorruzione, ve n’è uno ancor più chiaro contenuto in una norma appartenente sempre al medesimo apparato normativo, il Codice di comportamento dei dipendenti pubblici (dPR 62/2013). Si tratta della previsione, contenuta nell’articolo 9, comma 2:

La tracciabilità dei processi decisionali adottati dai dipendenti deve essere, in tutti i casi, garantita attraverso un adeguato supporto documentale, che consenta in ogni momento la replicabilità.

Come nota Titolare, la norma parla espressamente appunto di tracking. Gli scopi sono evidenti. Un sistema informativo efficiente consente di analizzare le procedure, informatizzandone i passaggi e digitalizzando i documenti; non solo: traccia tutti gli accessi al sistema da parte dei dipendenti, individuando automaticamente chi ha svolto le specifiche fasi procedurali, quanto tempo vi ha messo, come le ha gestite.

Un sistema informatizzato consente almeno due benefici. Il primo è la standardizzazione dei processi, fondamentale per le metriche del lavoro e le valutazioni. Il secondo è la possibilità di replicare il processo, tornando indietro, allo scopo di verificare in quale fase si sia eventualmente incagliato e per responsabilità di chi.

Questo garantirebbe l’estrema trasparenza del sistema. Come è noto, una delle principali fonti di inefficienza e anche di corruzione è il rallentamento di certe pratiche. Esso, talora, è conseguenza di inadeguata organizzazione; talaltra è, invece, artatamente voluto, per costringere i destinatari a raccomandarsi, se non a corrompere.

Un sistema pienamente informatizzato nella documentazione e nel flusso, tracciabile all’interno ed anche all’esterno ai fini dell’accesso, così come vuole l’impianto anticorruzione, è di per sé idoneo ad uno smart working vero, nel quale le procedure siano interamente gestibili da remoto perché tutti gli elementi necessari, dalla verifica istruttoria dei documenti, alla produzione del documento finale, sono gestibili mediante piattaforme informatiche (allo scopo è necessario anche sbloccare una volta e per sempre la possibilità di sottoscrivere da remoto contratti ed atti negoziali).

Ovviamente, Titolare, le norme richiamate prima dell’apparato anticorruzione sono tra le più violate e lasciate nei cassetti dell’intero ordinamento e dall’organizzazione amministrativa, caratterizzata a macchia di leopardo da procedimenti ancora gestiti con i graffiti nelle caverne preistoriche, e da procedimenti invece svolti appunto con piattaforme informatizzate.

Il che impedisce, poi, la comunicabilità piena tra banche dati e, quindi, tra amministrazioni e, soprattutto, condanna lo smart working della PA a trasformarsi, in alcun casi, nello “slow working” di cui sagacemente ha parlato Fabio Cintioli nell’articolo citato sopra.


Foto di Free-Photos da Pixabay

 

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