Lingua napoletana: "Speram ca pur o napulitan c’a fa..."
Centinaia di persone di buona volontà si adoperano da decenni per salvaguardare la lingua napoletana da una progressiva decadenza e per ridarle dignità. Eppure si fa strada l'opposta tendenza ad assecondare l'imbarbarimento lessicale, grammaticale ed ortografico del Napoletano, in nome della 'spontaneità', della modernità e dello slang giovanile 'ribelle'. Quella che segue non vuol essere una paludata e puristica difesa della lingua 'nobile', ma piuttosto la rivendicazione del rispetto dovuto ad un idioma plurisecolare, al suo patrimonio letterario ed allo sforzo di tanti per renderlo adeguatamente, in una forma scritta corretta ma attuale. Il resto sembrano operazioni commerciali, che rischiano di ridurre l'autentica cultura popolare a mero 'folklore' su cui fare profitto.
Su Il Mattino è apparso un divertente e volutamente sgrammaticato editoriale di Francesco Durante dal titolo “Il congiuntivo speriamo che se la cava”. Bersaglio della scherzosa querelle era l’illustre prof. Francesco Sabatini che, sebbene presieda l’ancor più illustre Accademia della Crusca, in un’intervista al Corriere della Sera si era mostrato molto indulgente nei confronti di chi fa disinvoltamente scempio della lingua italiana.
«Al professor Francesco Sabatini gli piace pensare che la lingua italiana non è una cosa immutabile, e che per difenderla non c’è bisogno di fare gli schizzinosi o di farsi pigliare da «psicodrammi» come la solita difesa del congiuntivo, oppure la lotta contro gli anacoluti, i pleonasmi, le frasi segmentate, contro i pronomi «lui» e «lei» usati anche come soggetti e contro lo «gli» polivalente, usato cioè anche per il plurale e il femminile. Ora io speriamo che lo psicodramma non c’è, anche se l’anacoluto ne parlano tutti male, e se è per questo anche il pleonasmo. Lui, però, gli sembra che non è un vero problema, questo. Dopotutto, è il parlato, la lingua viva degli italiani. Che, fin da quando è nata, la innovano di continuo, gli italiani, e giustamente gli pare che va bene così: l’importante è capirsi e comunicare.» [i]
Questa spassosa perorazione della correttezza formale della nostra lingua nazionale nei riguardi dell’insinuazione che difendere le regole grammaticali equivalga a tutelare “un’invenzione aristocratica che appartiene al passato e fa a cazzotti col presente” [ii], mi ha stimolato un’analoga riflessione sulla triste deriva del Napoletano. Ovviamente per alcuni si tratta solo della normale evoluzione di qualunque espressione linguistica; dell’inevitabile corruzione di una lingua prevalentemente parlata; di ovvie e scontate semplificazioni apportate ad un dialetto che nasce popolare e che del popolo napoletano condivide la spontaneità e lo spirito anarchico. Per carità, tutte osservazioni ispirate dal buon senso e parzialmente fondate. A me sembra, però, che una cosa è il fisiologico processo di trasformazione e semplificazione lessicale e morfo-sintattica che qualunque lingua (nazionale, regionale o locale) subisce col passar del tempo; ben altra cosa, invece, il truce imbastardimento del linguaggio, frutto di meticciamenti non necessari, di spregiudicate volgarizzazioni e di sana e robusta ignoranza.
Nessuno pretende che alla lingua napoletana (o per meglio dire: napolitana) si debba applicare un rigore lessicale e grammaticale di cui perfino l’Italiano sembra ormai fare a meno, con la solita scusa della modernizzazione e della semplificazione. Ci mancherebbe che laddove vien meno anche la paludata tutela da parte dell’Accademia della Crusca noi napoletani dovessimo inventarci un organismo ancor più esigente e severo per proteggere la lingua di Basile e di Di Giacomo, di Russo e di De Filippo. Io e tanti altri napoletanofili come me, del resto, non ci pensiamo proprio a mummificare un’espressione così diretta vivace e spontanea, mettendola “sotto la campana”, come si dice dalle parti nostre, col rischio di soffocarne la naturale vitalità pur di ‘conservarla’. Quel che chiediamo è solo un po’ di semplice – ma indispensabile – rispetto per una lingua che se lo merita tutto. Parlo di rispetto, non di un’ipocrita deferenza né di conservatorismo parruccone. Solamente di rispetto, parola la cui etimologia latina (re-spicere) rinvia ad un atteggiamento che tiene conto di ciò che ha davanti, che guarda e ri-guarda con attenzione l’oggetto del suo interesse. Il contrario, insomma, d’una modalità trasandata, becera, sciatta ed incapace di pesare le parole, nella convinzione che – come sottolineava anche Durante – in fondo “l’importante è capirsi e comunicare”.
E’ fin troppo ovvio che il primo obiettivo è quello di trasmettere il proprio pensiero agli altri. Se però l’umanità si fosse limitata a perseguire quest’unico fine si sarebbe potuta tranquillamente fermare ad uno stadio evolutivo assai poco sviluppato e, tutto sommato, non è neanche detto che sarebbe risultata indispensabile una comunicazione di tipo verbale. E invece no: il patrimonio di qualsiasi lingua va naturalmente arricchendosi, articolandosi, specializzandosi e perfezionandosi, dal punto di vista della varietà lessicale ma anche della messa a punto delle regole.
Lo so: la stessa parola ‘regola’ suscita in tanti di noi spiacevoli sensazioni. Evoca subito le raccomandazioni dei genitori, il mondo della scuola, le norme da imparare e far proprie e, per ovvio collegamento, la paura di sbagliare, di far brutta figura, di essere ripresi e corretti da chi ne sa più di noi. E’ più facile, allora, ribellarsi sdegnosamente alle regole formali, in nome del vecchio proverbio “Val più la pratica che la grammatica” e di un atteggiamento che rivendica ‘apertura’ ad ogni diversità e novità e guarda sospettosamente ogni norma, intesa come un’inutile costrizione.
Certo: seguire questa diffusa tendenza offre il non piccolo vantaggio di sentirsi in grado di fare a meno di ogni studio e, al tempo stesso, di provare la sensazione di fare qualcosa di trasgressivo, se non di rivoluzionario. E’ così che una pura e semplice manifestazione d’ignoranza – ad esempio per quanto riguarda le basi fondamentali dell’ortografia e della grammatica d’una lingua – può improvvisamente assurgere a scelta contestativa, a rivendicazione sociale e perfino a ribellione identitaria.
Tale impostazione sta cercando sempre più una legittimazione ufficiale, ad esempio contrabbandando lo stile sgangherato con cui molti giovani cercano di esprimersi per iscritto in Napoletano come se fosse una modalità linguistica alternativa. C’è infatti chi pensa di cavalcare la tigre dell’approssimativa espressione napoletana propria dei graffitari e dei rapper per riproporre un modello giovanilistico ed underground. C’è chi ha dichiarato di volerne ‘sdoganare’ il linguaggio crudo, diretto, ritmico ed ortograficamente ‘ribelle’ per farlo simbolo d’una nuova Napoli, più viva e trasgressiva. Peccato che questa ‘rivoluzionaria’ operazione sia spesso mirata a finalità d’altro genere, che poco c’entrano sia con la riscossa giovanile sia con la ribellione identitaria.
Fermo restando che nulla autorizza a cercare comode scorciatoie per aggirare la propria ignoranza dello spessore lessicale e grammaticale del Napoletano, esprimendosi per iscritto con un’ortografia brutta e ridicola, ritengo che il vero problema non sia solo di natura estetica e tanto meno che si tratti di ‘lesa maestà’ nei confronti delle ‘sacre regole’. Per quanto mi riguarda, infatti, non mi sento per niente un conservatore (tranne in materia ambientale…) e le posizioni che ho assunto nei miei quasi 65 anni di vita dimostrano che, quando è necessario, ho saputo essere anche molto trasgressivo.
Il vero problema – come ho avuto modo di spiegare pubblicamente anche ai novatori di “Song ‘e Napl” [iii] – non risiede dunque nel fatto che un qualsiasi Napoletano voglia ‘scrivere come parla’, falciando senza pietà le vocali che crede mute (mentre sono solo indistinte) e confezionando messaggi che assomigliano vagamente a codici fiscali. Il risultato di questa pretesa semplificazione può piacere o meno, ma credo che ognuno sia libero di esprimersi come meglio crede e/o sa fare. Ritengo però altrettanto legittima la reazione di disappunto – e in alcuni casi d’indignazione – di chi da decenni sta buttando il sangue – per di più volontariamente – per migliorare la consapevolezza linguistica dei Napoletani e per ridare dignità ad un’espressione linguistica degradata a idioma di serie B o C. Indignazione, si badi bene, non tanto nei confronti di chi sta involontariamente infierendo su un già malconcio ed imbastardito Napoletano, credendo di attualizzarlo e di renderlo più vivace. Il bersaglio di questa naturale reazione sono piuttosto coloro che, sventolando la bandiera della spontaneità e dell’orgoglio popolare, puntano in effetti ad obiettivi più prosaici e concreti. Temo infatti che si tratti ancora una volta dell’ennesima operazione commerciale per promuovere una falsa immagine di Napoli, un ‘marchio’ certamente diverso da quello stereotipato della pizza e del mandolino, ma non per questo meno negativamente folkloristico.
Il nostro grande antropologo Lombardi Satriani, in ‘Folklore e profitto’ [iv], già alla metà degli anni ’70 aveva denunciato l’insidiosa operazione di mistificazione della cultura popolare, trasformandone la naturale e genuina alterità in una pseudo-alternatività da utilizzare a scopi speculativi.
«La dialettica rilevante, nell’osservazione critica di Lombardi Satriani, tra familiarizzazione e de-familiarizzazione del folklore a uso e consumo di una sua migliore commercializzazione e di una ottimizzazione dei profitti suggerisce un meccanismo fondamentale del marketing dei territori che ancora oggi è al cuore delle riflessioni e degli interventi di progettazione economica istituzionale e privata nei diversi contesti locali. Non è un caso che proprio in quel testo Lombardi Satriani si rifacesse a quella nozione di “folkmarket” che già allora egli estrapolava da studi classici di sociologia dei consumi [Veblen 1899; Le Play 1855] e si chiedeva “se la cultura dei consumi e la cultura folklorica fossero solo zone antitetiche e se il loro rapporto non fosse, oltre che di negazione, di reciproca implicazione” [Lombardi Satriani 1973: 84], ad esempio, per quegli aspetti di uso consapevole da parte dei meccanismi pubblicitari di categorie come genuino, naturale, “pittoresco”, con esplicito riferimento al Gramsci di Letteratura e vita nazionale.»[v]
Penso però che i Napoletani – dopo secoli di dominazioni e parecchie spregiudicate strumentalizzazioni – siano già naturalmente vaccinati contro tali tentativi e quindi attenti e non farsi infinocchiare da chi lusinga l’orgoglio napoletano solo per piazzare prodotti commerciali o per appiccicare a Napoli un ‘marchio’ qualsiasi, pur di venderla meglio sul mercato turistico. I giovani che provano ad esprimersi napoletanamente anche per iscritto – come nel caso di chi compone testi per canzoni o rappresentazioni teatrali – hanno forse solo bisogno di leggere di più e meglio la letteratura napoletana e d’imparare alcune semplici regolette ortografiche. Chi li incoraggia a sbagliare, coccolandoli e fornendo loro pretestuosi argomenti per continuare a volgarizzare e rendere brutto, illeggibile e talvolta ridicolo il Napoletano, non li sta certo aiutando né tanto meno liberando da inesistenti persecuzioni puristiche. Chi addirittura pretende di accendere in loro l’orgoglio del linguaggio sgrammaticato e scorretto – per citare una nota locuzione popolare – temo che stia solo cercando di trasformare degli incolpevoli ‘ciucci’ in ‘ciucci presuntuosi’.[vi]
Non credo proprio che l’articolato e vivace universo giovanile della nostra città – quello sottoproletario come quello movimentista ed underground – sia davvero intenzionato a mettere il proprio spontaneismo espressivo al servizio d’una simile speculazione. In caso contrario, dovrei solo concludere, usando paradossalmente anch’io il pittoresco idioma napolese, che: “ A lavà a cap o ciucc s perd l’acqua e o sapon “ .
N O T E —————————————————-
[i] Francesco Durante, “Il congiuntivo speriamo che se la cava”, Il Mattino (13.12.2016) > http://www.ilmattino.it/primopiano/cronaca/il_congiuntivo_speriamo_che_se_la_cava-2136925.html
[ii] Ibidem
[iii] Visita la pagina FB: https://www.facebook.com/songenaploriginal/?ref=ts&fref=ts ed il sito web: http://sito.omninapoli.com/
[iv] Luigi M. Lombardi Satriani, Folklore e profitto. Tecniche di distruzione di una cultura, Firenze, Guaraldi, 1973
[v] Letizia Bindi, “Rileggendo Folklore e profitto. Patrimoni immateriali, mercati e turismo”, EtnoAntropologia, Vol. 2 (2014) > http://rivisteclueb.it/riviste/index.php/etnoantropologia/article/view/97/142
[vi] Raffaele Bracale, “Ciuccio e presuntuoso” (2012) > http://lellobrak.blogspot.it/2012/06/ciuccio-e-prosuntuosolo-si-dice.html
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© 2016 Ermete Ferraro (http://ermetespeacebook.com )
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