La transizione congelata di un Egitto che non si dà futuro
Spionaggio, incitazione alla violenza, distruzione dell’economia sono le accuse molto politiche ma con ricadute penali che hanno rinfocolato alcune querele rivolte al presidente deposto Mursi da alcuni cittadini egiziani. Di lui si sa che è tuttora agli arresti in un luogo segreto che dovrebbe essere proprio il quartier generale della Guardia Repubblicana davanti al quale s’è verificato il massacro di militanti islamici l’8 luglio.
Da notare che il consolidamento di queste mosse: revisione della Costituzione (se si riuscirà a fare), referendum e poi consultazioni presidenziali e politiche avverrebbe con una concentrazione di poteri legislativo ed esecutivo nelle mani della coppia Al-Mansour-El-Beblawi che ripercorrono la stessa via di quell’accentramento praticato da Mursi che gli era valsa l’accusa di comportamento dittatoriale. Per non parlare dell’impulso all’attuale svolta da parte di Al-Sisi e delle Forze Armate, versione aggiornata dello Scaf.
Rispetto a quei tempi la lobby militare ha addirittura rafforzato la sua posizione perché non s’espone in prima persona come fece nei 16 mesi di gestione il feldmaresciallo Tantawi. Fra gli stessi sostenitori del ruolo di tutela nazionale dei militari si fa fatica a giustificare un’ingerenza nella vita politica del Paese tramite interventi autoritari mirati a reprimere, assassinare, incarcerare soggetti politici e quella cittadinanza, non certo marginale, che li appoggia.
Tutto in un quadro d’impunità offerto dalla magistratura restìa a intervenire severamente nei confronti delle divise, come dimostrano molteplici occasioni: dai processi per l’eccidio allo stadio di Port Said alle repressioni seguite agli assedi alle caserme del dicembre 2012. L’Egitto dovrebbe ricominciare da una situazione simile all’uscita di scena di Tantawi o peggio di Mubarak. Con molte ferite in più e tante speranze in meno.
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