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La strage del carcere di Modena nuova richiesta di archiviazione della procura

Siamo in tanti e tante davanti al pc a fissare la pagina vuota.

Tanti e tante attiviste del Comitato verità e giustizia per la strage del Sant’Anna di Modena che devono reagire all’ennesima batosta. 

di Alice Miglioli

 

Da tre anni ci battiamo con tutte le nostre forze perché venga fatta luce sulla più sanguinosa strage carceraria del nostro paese e su quel maledetto 8 marzo 2020 quando, a seguito della rivolta scoppiata per la scellerata non-gestione dell’emergenza Covid, hanno perso la vita dentro e fuori il penitenziario modenese nove persone.

Le loro morti sono già state archiviate due anni fa. Sembra non sia stata colpa di nessuno, come se abbandonare un carcere per poi sparare da fuori alla cieca, ad altezza uomo, fosse una cosa normale; come se fosse vero che, in quel contesto, si possa morire di overdose da farmaci, magari “andandosela a cercare”. Non è di overdose, invece, che si è morti, in quel carcere, lo fa capire con chiarezza la testimonianza del dottor Conserva nell’inchiesta Anatomia di una Rivolta, di Giulia Bondi e Maria Elena Scandaliato: se non avessero trasferito i detenuti, se li avessero curati, se li avessero visitati prima di portarli in un blindato in giro per l’Italia, non sarebbero morti. Eppure tutti quelli che hanno contribuito a lasciar spegnere quei nove giovani corpi oggi si lavano la coscienza, con l’appoggio della procura che decide di rinunciare a quello che dovrebbe essere il suo ruolo (o forse lo assolve perfettamente…) per mantenere più intatto possibile lo status quo.

La procura di Modena si è presa in questi anni ogni proroga d’indagine possibile, non per approfondire, come avevamo a tratti ingenuamente creduto, ma per ragionare al meglio su come raccontare storie. Nelle due paginette scarse che relazionano la richiesta di archiviazione per i reati di tortura e lesioni a carico di centoventi agenti della penitenziaria, si legge che il motivo della richiesta risiede nella scarsità di referti medici che possano confermare le dichiarazioni di nove detenuti-testimoni, implicitamente accusati di menzogna.

Che quel giorno le persone non fossero state adeguatamente visitate, o non visitate per niente, lo dicono i medici stessi nell’inchiesta mandata in onda dalla Rai. Che fossero state trasferite senza visita medica era già un’anomalia sufficiente a fermare le archiviazioni delle inchieste sulle morti, e invece, in un magico ribaltamento della realtà, questa mala gestione diventa un’arma per archiviare di nuovo, questa volta le singole condotte degli agenti. Che i detenuti, dopo essere scampati al fuoco, al fumo, alle botte, essere stati trasferiti chissà dove, scalzi, gettati in una cella d’isolamento, non abbiano creduto necessario, possibile e utile farsi refertare le contusioni è umanamente comprensibile.

Ma la procura supera sé stessa, asserendo che un altro dei motivi che motiverebbe le archiviazioni sarebbe l’assenza di video di sorveglianza. Video che in tre anni non ci sono, poi ci sono, poi non ci sono di nuovo.
Non ci sono perché i detenuti hanno distrutto le telecamere – ah, no, scusate…! –, non ci sono perché i secondini hanno staccato la corrente. Video di cui la procura non vuole parlare e che, ci sarebbe poco da stupirsi, potrebbero comparire magicamente nel momento in cui ci sarà da accusare di devastazione e saccheggio i detenuti ritenuti responsabili della rivolta.

È questa beffa forse la cosa più grave a cui stiamo assistendo: le morti, le botte e le ingiustizie, lo Stato le sta imputando ai detenuti stessi, nell’operazione di capovolgimento tra vittima e colpevole di cui è maestro. In questo gioco perverso, più si è impossibilitati ad agire, più in basso si è tra i gradini della scala sociale, più si è facili vittime di accuse, mentre i veri responsabili si allontanano sempre più dal luogo del fatto.

Da tre anni a Modena esiste un comitato che si batte per avere verità e giustizia, restituzione di una narrazione che non incolpi le vittime e restituisca dignità alle parole di quelli che restano umani.
Le carte dicono che delle parole di nove coraggiose persone non ci si può fidare; noi invece diciamo che proprio di chi ha subito, di chi non ha nulla da guadagnare né da perdere da questa situazione, ci fidiamo. Ma questa lotta non è finita, ci sono ancora settanta imputati per rivolta da difendere e una verità da rivelare.
Noi saremo ancora qui, coscienti che la lotta per l’emersione di ciò che è successo in quei giorni al Sant’Anna è una lotta per l’emersione della violenza intrinseca e non occasionale, dell’inumanità e dell’insensatezza del carcere e di tutte le istituzioni totali.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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