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La ripresa americana: poca roba

Sino a poche settimane fa, a fronte della mediocre prestazione dell’economia europea, era sottolineata la pur contenuta ripresa americana, che lasciava presagire una crescita del Pil prossima al 3%. In questo quadro era sbandierato come un risultato eccezionale l’aumento di circa 800.000 posti di lavoro.

 

Poi è arrivata la “gelata” di fine maggio: l’indice si crescita si è abbassato e soprattutto, i 180.000 nuovi posti di lavoro attesi, si sono ridotti ad un dato molto più striminzito: 59.000.

Obama se l’è cavata dicendo che è tutta colpa dell’Europa (ma pensava “Germania”) che non sta dimostrando coraggio e con la sua “austerità” sta accentuando le tendenze recessive mondiali. Naturalmente nelle affermazioni del Presidente americano c’è del vero: la stupida fissazione dei tedeschi per il pareggio di bilancio è la più sonora sciocchezza che sia dato di vedere e questo incide sulla situazione economica mondiale, ma la spiegazione è troppo sbrigativa. Intanto siamo di fronte ad un rallentamento mondiale dell’economia (e di Cina, India e Russia torneremo a parlare), ed, in questo, gli Usa ci mettono del proprio.

Era vera ripresa quella a cui abbiamo assistito sinora?

In primo luogo, una ripresa intorno al 3% è un risultato meno che mediocre per gli Usa che, dopo le fasi recessive, hanno sempre avuto scatti in avanti del 5-6%. Peraltro questo risultato è avvenuto dopo un ennesimo quantitative easing della Fed che ha inondato il mondo di altri miliardi di dollari, cui si sono accompagnati progetti di stimolo alle imprese. Ciò considerato, non è davvero un gran risultato in sé.

Per di più, dopo i primi mesi, le aspettative sono scese sotto l’asticella del 2%, quel che ha gelato gli entusiasmi delle borse. Tutto sommato, a fine anno si faticherà a tenere il livello di +1,5%. Decisamente poco.

Una riflessione a parte meritano i quasi 800.000 posti di lavoro nuovi. Anche qui, non si tratta davvero di un risultato da favola: in proporzione sarebbero circa 130.000 posti di lavoro in Italia. Un risultato da non disprezzare, ma quando si hanno indici di disoccupazione all’8-9% della forza lavoro, è come dare mezzo bicchiere d’acqua ad uno che non beve da tre giorni.

Ma guardiamoci un po’ dentro.

In primo luogo non si tratta in assoluto di nuovi posti di lavoro, ma di posti in cui erano impiegati immigrati (prevalentemente chicanos) costretti a rimpatriare e dove sono stati piazzati cittadini americani. In effetti la disoccupazione scende un po’ ma dal punto di vista del Pil non si aggiunge uno spillo. In secondo luogo, ci sono stati contratti in scadenza nel 2012 che sono stati protratti un po’ artificiosamente nel 2012 e di altri contratti anticipati dal 2013. Questo vuol dire che si tratta di posti di lavoro che non troveremo il prossimo anno.

Insomma, la crescita effettiva sembra non raggiunga le 160.000 unità. Nulla di cui valga la pena di parlare se non come di un brillante spot elettorale in vista del voto di novembre.

Il guaio è che, nel frattempo, si sta profilando un nuovo crack bancario di vaste proporzioni e forse peggiore del precedente. E peggio ancora ove si consideri la debolezza del sistema bancario europeo: ogni banca ha obbligazioni delle altre in un intreccio inestricabile di crediti e debiti, cosi che il crollo di ciascuna pone le premesse per quello dell’altra in un inarrestabile effetto domino. Naturalmente è possibile calmierare un po’ le cose con nuovi gettiti di liquidità (l’unica cura che i governi occidentali conoscono, compresi i tedeschi, avarissimi con gli stati ma assai prodighi con le banche, perché anche loro hanno qualche gatta da penare con la Commerzbank). Ma su questo conviene essere chiari: questo genere di interventi servono solo a “comperare tempo”, buttando in avanti la palla, ma non possono andare avanti in eterno e, nell’attuale sistema finanziario, finiscono per porre le premesse per la successiva ondata di crisi: il denaro vuol essere costantemente remunerato e, se non finisce in attività produttive, ma in investimenti finanziari, chiede nuovi interessi, quindi produce debito allargato. La liquidità di oggi è solo la premessa per i nuovi debiti di domani.

Obama è stato bravo nel creare la sensazione di essere l’uomo del “secondo new deal” ma si è trattato solo di un abile giochetto ed il suo è stato solo un “keynesismo per banchieri”. La sua politica espansiva è servita essenzialmente a rifinanziare la forte massa di titoli ad alto rischio che vanno scadendo in questo anno, ma non ha prodotto un’unghia di crescita economica.

Le ragioni della crisi dell’Occidente non sono poi così misteriose: mancano investimenti nella produzione che rilancino la base occupazionale e risanino la bilancia commerciale, ma questo è reso impossibile dall’attuale modo di funzionare dell’economia che spinge verso un crescente impiego finanziario di ogni dollaro o euro che esca dalla Fed o dalla Bce. Per invertire la rotta occorrerebbe una drastica riforma punitiva nei confronti della finanza. Ma Obama non ha il coraggio necessario per tentarlo e la sua riforma è stato solo un macilento topolino partorito dalla montagna delle sue dichiarazioni iniziali.

In queste condizioni, è del tutto lecito attendersi che l’anno prossimo, dopo l’appuntamento elettorale di novembre, segnerà una nuova recessione degli Usa.

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