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La realtà della crisi e le maschere di una politica spesso indecente e sempre deludente

Bebbe "Horcynus" Grillo, l’incandidabile, va a nuoto da Scilla a Cariddi (o viceversa) inseguito da telecamere e fotografi in una mussoliniana dimostrazione di prestanza (a quando la trebbiatura?) che dice quasi tutto del personaggio.

Bersani e Vendola, tra una punzecchiatura reciproca e l’altra, votano quella vera e propria manovra (inutile negarlo, lo è, e non c’è nulla di male in questo; non si arresta con un solo colpo di pedale un TIR che corre a tutta velocità, e questo, che continua ad andare verso un burrone, è l’Italia) che è la legge di stabilità, ma, specie il secondo, badano bene a non proporre altro che slogan alla portata di un qualunque orecchiante dell’economia. Renzi sciorina banalità ovunque (cicci, ma non saresti pagato per fare il sindaco di Firenze? E… quando è che lo faresti il tuo lavoro? Ah, tu sei un politico e a te certe cose non vanno chieste. Capito), ma, probabilmente, non sentendosi abbastanza populista, pensa bene di attaccare a spada tratta la Fiat, forse convinto, così facendo, di rendere più facile alla casa torinese il decidere se mantenere o no i propri investimenti italiani.

Nella destra desertificata dal suo operato, si alza stentorea solo la voce dell’ormai impresentabile (agli elettori italiani e, soprattutto, al consesso internazionale) Silvio Berlusconi che promette l’ennesimo “passo indietro”, cosa che peraltro gli riesce malissimo e che, comunque, avrebbe senso solo se indietro con sé portasse, auspicabilmente mille miglia lontano dalla politica, la pletora di personaggi da operetta (o assai peggio, guardando alle vicende lombarde) che a suo tempo nominò ministri e di cui ha riempito il parlamento e infarcito le amministrazioni locali. Per il resto, là dove svetta Alfano, è solo silenzio; al massimo, fino ad ieri, qualche raglio per protestare contro questa o quella decisione di Monti oltre che al solito lavoro nell’ombra per fare gli interessi supremi del capo, questa volta appiccicando un paio di norme alla partorenda, dopo inenarrabile travaglio, legge anticorruzione.

Tace, non so mai bene se metterlo a destra dove dovrebbe idealmente stare o a sinistra dove pare proprio sia, anche il mio ex pupillo Totonno Di Pietro, non perché abbia già detto tutto quel che non vuole o perché stia meditando per decidere finalmente cosa diavolo vorrebbe (fare dell’Italia, s’intende), quanto perché sorpreso, con gran dolore del suo ego di grande moralizzatore, dallo scandalo scoppiato attorno a Vincenzo Salvatore Maruccio, aka Fiorito Dos, capogruppo e segretario regionale dell’IDV laziale che pare si sia intascato 700.000 euro. “Sbagliamo sempre”, si lamentano quelli della base. Dai ragazzi, non prendetevela, episodi come questo dimostrano come Tonino, che va sempre ringraziato per aver scoperto il folgorante talento di Scilipoti (ci fosse ancora Jonesco, ci scriverebbe sopra una commedia), non si porta dietro alcuna scoria del proprio passato di magistrato e di guardia carceraria; giudice, perlomeno di caratteri, non sembra proprio esserlo e quanto alla sua capacità di sorvegliare i propri detenuti (pardon candidati) è meglio stendere l’ennesimo velo pietoso.

Detto questo, ammirato il panorama della nostra politica, ben difficilmente si può non essere d’accordo col duo Fini-Casini, i due ex imberbi sopravvissuti della Prima Repubblica che, indubbiamente dopo considerazioni di tornaconto elettorale, appoggiano a spada tratta il professore: se certe cose non le farà Monti, o qualcuno che gli assomigli dannatamente, non si vede proprio nessuno che possa farle.

Quali cose? Il nocciolo della questione, comunque si rigiri la frittata, è che, Euro o non Euro, grande finanza internazionale, tedeschi cattivi, finlandesi insensibili e americani (quelli si sa, c’entrano sempre) a parte, il nostro paese, dati alla mano, perde competitività da esattamente un trentennio. Di più: per colpa dei piemontesi, dei Borboni, dei fascisti, dei comunisti o di chi volete voi, la nostra pubblica amministrazione è tra le più inefficienti del mondo sviluppato, il che si traduce nel semplicissimo fatto che, a fronte di tasse da paese scandinavo, gli italiani abbiano servizi pubblici, appunto, da Italia.

Se vi possono essere idee diverse su come racimolare i soldini per sopravvivere un altro anno o due (compito tutt’altro che facile), non vi dovrebbe essere il minimo dubbio sul fatto che non sia possibile alcun rilancio del paese senza una riqualificazione (badate, non parlo di riduzione) della spesa pubblica: un processo che sarò necessariamente doloroso e scontenterà molti. Se a questo si aggiunge l’impossibilità di abbassare la pressione sulle imprese ed i lavoratori autonomi, il prossimo Presidente del Consiglio, chiunque sia, per fare gli interessi a lungo termine dell’Italia si troverà a scontrarsi contro quelli immediati della maggioranza, forse stragrande, dei suoi cittadini.

Una situazione insostenibile, per qualunque governo non abbia alle spalle quasi l’intero Parlamento, che sarà frutto di decisioni inevitabili quanto difficili e comunque fuori dalla portata di chi sia dimostrato nei confronti del Paese, e in un modo o nell’altro è già accaduto a tutti i protagonisti della nostra politica attuale, “come imperfetto attor in scena, cui propria parte il cuor fa molle”.

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