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La notte più buia di Parigi: Carrère racconta V13, lo storico processo del Bataclan

Esce in questi giorni anche in Italia il nuovo libro dello scrittore, documentarista e regista francese: lunga nove mesi, la cronaca giudiziaria degli attentati terroristici del 2015 diventa un grande racconto corale di abisso, dolore e rinascita, a metà strada tra il reportage e il romanzo.

È durato quasi un anno, settembre 2021-giugno 2022, il processo per gli attentati compiuti a Parigi nella notte del 13 novembre 2015, quando un commando terrorista di matrice islamica seminò panico e morte prima davanti allo Stade de France, poi sulle terrasse di locali e ristoranti del X° e XI° arrondissement e infine nella sala concerti del Bataclan, gremita di giovani che assistevano a uno spettacolo. 130 morti, centinaia di feriti gravi, sopravvissuti e parenti delle vittime con le vite spezzate: V13 è il nome in codice di questo procedimento che fa già parte della storia. Ha portato a giudizio 14 imputati, collegati in modo più o meno diretto alle stragi; non gli esecutori materiali, che si sono fatti saltare in aria con le loro cinture esplosive subito dopo l’attacco o sono morti nei giorni successivi, braccati dalle forze dell’ordine.
V13 - come quel terrificante venerdì che sconvolse la Francia e il mondo - è anche il titolo del nuovo libro di Emmanuel Carrère. Una cronaca giudiziaria puntuale che esce però dagli schemi e dai tecnicismi per prendere la forma di un romanzo i cui personaggi sono in primo luogo le parti civili, oltre 1600, con le loro storie raccontate in 30-40 minuti di testimonianza, di toccante confronto con gli altri e se stessi.

In occasione dell’uscita di “V13” in Italia, tradotto e pubblicato da Adelphi, Carrère ha partecipato a un incontro con grande presenza di pubblico, al teatro Strelher di Milano, dove ha ripercorso le origini del suo ultimo lavoro, soffermandosi sull’immenso quadro umano di quest’ esperienza collettiva – il processo - che lo scrittore ha avuto il privilegio di vivere in prima persona. È un romanzo, ma anche il reportage giornalistico di un evento epocale al quale Carrère ha tenuto molto fin dall’inizio, tanto da chiedere espressamente di poter partecipare, come inviato del magazine, L’Obs a tutte le giornate del dibattimento per poterlo raccontare, con cadenza settimanale, sulle pagine del giornale. “V13” è però molto più della raccolta di questi articoli, tra l’altro ripresi anche da diverse testate straniere; è un’opera a se stante che si legge con il fiato sospeso e un’indescrivibile coinvolgimento emotivo pur conoscendo già la fine. C’erano tanti modi di interpretare il lungo percorso di testimonianze, interrogatori, requisitorie; tanti modi di cogliere la potenza di questo “rito collettivo” che trasforma, nelle stesse parole di Carrère, la sala bunker bianca di Parigi, all’Île de la Cité, in una sorta di grande chiesa dove ciascuno – vittima o carnefice – va alla ricerca di un senso, una via d’uscita, forse addirittura una catarsi. Non importa quanto ci vorrà. V13 è per Carrère una “traversata, interpretata da narratore interno, senza retorica né romanticismo, senza esprimere giudizi a priori e tuttavia con un pathos e un’empatia che contagiano il lettore. Nadia, Maia, Alice e Aristide, tra i tanti testimoni, e poi tutti i sopravvissuti e i parenti dei morti; il padre che si rifugia nel rancore e non vuole perdonare, o il sopravvissuto che scrive, al contrario, un libro dal titolo “Vous n’aurez pas ma haine”, voi non avrete il mio odio; o ancora il giovane misteriosamente risparmiato dai terroristi dopo averli guardati negli occhi: sono tutti loro, i protagonisti da ricordare.

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Le deposizioni, più o meno trascinanti, sono frammenti di esistenze che, dopo la tragedia, cercano di “inquadrare” il dolore e la sofferenza. Proprio questo è stato il primo obiettivo raggiunto da quello che, all’unanimità, viene definito “un buon processo”: prima ancora che condannare gli imputati per associazione terroristica, cosa tutto sommato scontata, ha permesso di unire i viventi, dando loro la possibilità di deporre, come un punto fermo, il loro tassello del 13 novembre. “Le vittime che ascoltavo giorno dopo giorno – scrive l’autore in nelle pagine di “V13” - a me sembra che siano in gran parte dei veri e propri eroi. Per il coraggio che è stato loro necessario a ricostruirsi, per il loro modo di abitare quest’esperienza della potenza del legame che unisce morti e sopravvissuti”.

Nei frammenti di ricordi e dettagli, orari e ultime parole, s’insinua l’alito pesante del fato: perché quei bersagli tra i tanti possibili vagliati dai terroristi prima dell’attacco, perché essere lì e non altrove, quando la probabilità di restare uccisi in un attentato è, statisticamente, così infinitesimale? Nonostante tutto questo, di fronte all’ineluttabilità e irreparabilità della perdita, il processo non viene meno nel suo senso e la sua forza. Anche nell’assenza degli attentatori che hanno sparato a raffica con i kalashnikov, si esprime in quel luogo – come scrive Carrère – un senso di giustizia storico, universale ed eterno, in una dimensione corale che trascende l’individuo. “Qualche giorno dopo il Presidente fa l’appello dei fantasmi, i nomi dei 130 morti risuonano nel silenzio che li stringe tutti e Aurélie (la testimone) sente nel suo corpo, come un’onda, la dimensione collettiva di quello che succede là”.

Dall’altra parte dell’aula, nel box degli imputati che incarnano il male in questa tragica vicenda, c’è molto meno da scoprire, ninete di così unico da condividere. A poco è servito il lavoro dei giudici nel cercare di fare luce, negli interrogatori, sulle radici del terrorismo islamico, la radicalizzazione, i martiri della jihad che tra il 2015 e il 2016 portarono il terrore in Europa, in uno dei periodi più tragici della storia recente. Niente, o quasi, è emerso. V13 rileva quanto mai - attraverso questa cronaca giudiziaria - la banalità del male, la sua mancanza d’interesse, la quasi monotonia dei suoi ritmi distruttori. Ben poco gli interrogatori degli accusati aggiungono o chiariscono, o aiutano a ricostruire gli eventi. Alcuni si trincerano dietro un silenzio intermittente, oppure si esibiscono in modo grottesco, o ancora parlano per stereotipi, “la vendetta contro l’Occidente”, “punire i miscredenti”, “le bombe francesi sulla Siria”. Eppure traspaiano, a tratti, anche le personalità di giovani musulmani nati e vissuti in Europa, in Belgio o in Francia che, complici marginali, ignari del piano degli attentati, inconsapevoli autisti o falsari, pesci piccoli, trasmettono lampi di umanità e disperazione che Carrère riesce a cogliere ancora una volta senza pregiudizi. Tanto si attendevano il Presidente e la Corte da Salah Abdeslam, l’unico membro del commando a non essersi fatto esplodere; ma negli spazi in cui avrebbe potuto parlare, ha scelto invece di non lasciare affiorare informazioni utili o nuove verità. Nella sua condanna all’ergastolo si coglie tuttavia l’esito più tangibile e simbolico del processo V13.

Emmanuel Carrère, francese di Parigi con origini russe da parte di madre – reso famoso da opere quali Limonov, L’avversario, Un romanzo russo, La settimana bianca, Altre vite che la mia – aveva già a lungo sperimentato l’indagine, allo stesso tempo giornalistica e filosofica, dell’universo del male; quello assoluto, indifendibile, incarnato da personaggi nella maggior parte dei casi reali e non d’invenzione, quelli senza attenuanti possibili, che ugualmente, disperatamente, si prova a comprendere. “V13” è un’altra tappa del viaggio in questo nero attraverso cui emerge, comunque, la luce dell’umanità.

Eleonora Poli

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