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La frana del Vajont: 1963-2017 (un altro nodo al fazzoletto)

Il 9 ottobre del 1963, dal Monte Toc si stacca una frana di 260 ml di metri cubi di roccia che, cascando nel lago dietro alla diga del Vajont, solleva un'onda di 50 ml di metri cubi d'acqua e fango.Solo la metà scavalca di là della diga, solo venticinque milioni di metri cubi d’acqua... Ma è più che sufficiente a spazzare via dalla faccia della terra cinque paesi: Longarone, Pirago, Rivalta, Villanova, Faè. Duemila i morti.

 

 
Iniziava così il racconto di Marco Paolini sul teatro naturale della diga del Vajont: l'apocalisse umana che causò 2000 vittime (di cui mille corpi mai recuperati) in un olocausto consumato in 4 minuti.
Ci eravamo dimenticati della tragedia del Vajont, era stata relegata in quelle vergogne italiane, nascosta dietro una verità ufficiale di comodo, portata avanti dai governi e dai maggiori quotidiani di informazione.
 
Più niente da dire o da fare .. nessuno ha colpa .. una sciagura pulita .. tutto fatto dalla natura”
Giorgio Bocca 11 ottobre 1963
 
Un sasso è caduto in un bicchiere ..” Dino Buzzati sul Corriere, 11 ottobre 1963.
 
Sciacalli” scriveva Montanelli, sempre sul Corriere, nei confronti di quanti indicavano nei costruttori della diga, i responsabili della tragedia.
 
Finché, il 9 ottobre 1997, Paolini non raccontò in prima serata la storia della diga del Vajont e anche la storia della guerra contro questa diga, portata avanti dagli abitanti della valle del Vajont, Erto e Casso contro la Sade. Teatro civile, disse, ma anche un nodo al fazzoletto, per non dimenticare un'altra volta.
Perché la storia di questa diga, che inizia negli anni '30, è molto istruttiva per raccontare i mali di questo paese. Dove si piangono morti e tragedie dopo che succedono. Dove non si ascolta mai la voce delle Cassandre che annunciano queste disgrazie, portando dati oggettivi.
Dove l'interesse pubblico (la salute delle persone, la possibilità di vivere senza l'incubo che una montagna ti cada addosso) spesso arriva dopo l'interesse privato del potente di turno (la Sade veneziana, che era uno stato nello stato, parole del deputato DC Da Borso) capace di manovrare e comandare amministratori locali, quotidiani e giornalisti (che eccetto l'Unità con Tina Merlin, non raccontarono mai cosa succedeva in valle), perfino le forze dell'ordine (che pure dovrebbe garantire la sicurezza dei cittadini e non solo la sicurezza della diga)..
 
 
La storia della diga del Vajont (si legga in proposito “Sulla pelle vita” della Merlin) racconta di finanziamenti pubblici a fondo perso per pagare un'opera privata, grazie ad una legge del governo Mussolini (dove il conte Volpi era pure ministro) prima e ai governi DC poi, con sempre il conte Volpi ora antifascista.
Racconta di espropri fatti senza guardare troppo per il sottile, perché di mezzo c'era il progresso, le grandi opere ingegneristiche che avrebbero fatto grande l'Italia e che non potevano essere bloccate da quattro contadini ignoranti. O da una giornalista comunista che venne pure denunciata per aver parlato della frana che incombeva sui paesi in valle.
E che venne assolta quando la frana cadde, non quella del 1963, ma la frana di tre anni prima, nel 1960: a volerli vedere, i segnali premonitori della tragedia c'erano tutti.
La storia racconta che degli allegri controlli del pubblico con “l'allegra commissione di collaudo” come la chiamò Paolini, più interessati a fare una scampagnata che non a controllare come venissero usato i fondi pubblici.
Racconta dell'incoscienza del privato che costruiva in concessione dello Stato: la Sade era consapevole dei rischi per le indagini fatte dal dottor Leopold Muller,dal figlio stesso del dottor Semenza, l'ingegnere della diga. Sapeva dei rischi nel portar l'acqua oltre la soglia dei 700 metri per gli studi fatti dal professro Ghettidell'università di Padova, studi rimasti poi in un cassetto.
 
Tutti in valle sapevano della frana, perché tutti sentivano le scosse, i boati, vedevano la terra muoversi, vedevano quella trincea in cima al TOC, che delineava il fronte della frana.
Lo vedevano gli abitanti di Erto, il sindaco, i carabinieri che venivano rassicurati dalla prefettura e dal Genio civile.
Anche i tecnici della Enel Sade sapevano di quanto stava succedendo sul TOC: dopo la nazionalizzazione delle idroelettriche, la diga del Vajont era stata comprata dall'Enel come impianto funzionante.
Per poterlo vendere al miglior prezzo serviva quella prova di invaso, a quota 715 metri, sopra la soglia di sicurezza stabilita dalle simulazioni del prof. Ghetti.
Il profitto e i guadagni prima di tutto.
 
Così in quei giorni tra settembre e ottobre tutti sapevano ma nessuno ha fatto nulla: solo la natura ha proseguito il suo corso, ma diversamente da quanto scrisse poi Bocca, non era vero che non c'era nessun colpevole. Colpevoli erano quanti non hanno rispettato la natura, hanno messo il profitto e il guadagno davanti la sicurezza e l'incolumità delle persone.
 
Ogni anno che passa ci dobbiamo ricordare di cosa è stato il Vajont: una valle spazzata, le 2000 vittime, per un'onda acqua e fango che fu come il fallout di due bombe nucleari di Hiroshima.
Perché il nostro è rimasto un paese fragile, oggi come allora. Frane, alluvioni, terremoti. E incendi estivi che spazzano via i boschi e gli alberi che, con le radici, tengono ferma la terra delle montagne.
Perché ancora come oggi la cultura ambientale in questo paese non esiste: rimaniamo il paese dei condoni e delle lacrime tardive. Tanto bravi ad accorrere sul luogo delle sciagure per scavare tra le macerie, tanto incoscienti nel costruire male, nel cementificare fiumi, nell'inquinare l'aria e le falde.
 
E ogni volta si sente ripetere la stessa storia. Sciacalli. Non si specula sulla morte.

 

E ogni volta si ricomincia da capo. Coi condoni, con le grandi opere (TAV,Mose, ponte sullo Stretto..), con promesse sempre disattese.
Questo articolo è stato pubblicato qui

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