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La croce che divide e discrimina

Ora che il nuovo anno scolastico è iniziato, staremo a vedere se la recente sentenza della Cassazione sul crocifisso in classe produrrà degli effetti, e quali. La mattina di venerdì 10 settembre alcuni giornali le hanno concesso grande spazio, poi è calato perlopiù il silenzio.

 Il principio ispiratore della via “mite” è stato in genere accolto con compiacimento, ma per motivi spesso opposti (in sordina si sentono voci perplesse, anzitutto per il caotico affastellarsi di simboli che rischia di profilarsi: allora togliamoli tutti, ora deve intervenire il Parlamento, è un infelice compromesso, smuriamo i crocifissi dalle aule). Non sono mancate titolazioni reticenti o confusionarie, sia pure magari in perfetta buona fede. E molti lettori, si sa, leggono solo quelle. Subito intanto, tradotte in slogan pronti all’uso, hanno attraversato i social. Le cronache peraltro non sempre sono state molto più rispettose dei fatti.

Restiamo all’edicola di venerdì scorso. “Repubblica”, secondo quotidiano italiano per numero di vendite, riporta in cronaca un’intervista al prof. Coppoli, ma soltanto nella versione on line e solo per gli abbonati. Il “Fatto” si sforza un po’ di più con un piccolo trafiletto dedicato, mentre on line rende accessibile a tutti un intervento di Corlazzoli dall’opportuno titolo liberatorio: “Finalmente potrò chiedere di togliere il crocifisso dall’aula!”. Il “Corriere della Sera”, primo quotidiano, dedica alla questione due intere paginate. L’articolo principale (di Alessandra Arachi in versione imparziale) occupa la pagina dieci, con una civetta in prima, è informativo e cita pure le parole di Adele Orioli per l’Uaar. È completa anche la titolazione, nonostante le necessità di sintesi: “La scuola decide in autonomia ma deve mediare con chi dissente”.

In evidenza si riportano le opinioni del Centro Studi “Livatino” e di Giorgia Meloni, mentre tutta la pagina undici è consacrata a un’intervista in ginocchio all’arcivescovo e teologo Bruno Forte. Di fronte, a fare da contraltare, un piccolo ritratto demonizzante Coppoli (della Arachi in versione faziosa): foto con espressione torva, fedina scolastica macchiata anche da “dodici giorni di sospensione per aver rifiutato di far entrare nella sua classe le squadre cinofile per un controllo antidroga”, ora “festeggia in riunione con i no pass”, e sorvolerebbe “sul fatto che la Cassazione ha stabilito che quel crocifisso in classe non era affatto discriminatorio nei suoi confronti, negandogli il risarcimento richiesto”. Soprattutto, insomma, questa mania di togliere o coprire il crocifisso: “Un comportamento che gli era costato una sospensione di trenta giorni senza stipendio, una denuncia alla Procura della Repubblica e un deferimento davanti all’organo di disciplina del Consiglio nazionale della pubblica istruzione, con il rischio del licenziamento”. Qui però è l’articolista a sorvolare sul fatto che la Cassazione ha infine dichiarato illegittime tali sanzioni, lecito per il docente opporsi all’affissione del crocifisso, e discriminatoria l’affissione stessa se obbligatoria, autoritativa o incurante dell’opinione delle minoranze interessate (a cominciare dal docente stesso).

“Avvenire” è il quotidiano che assegna maggiore importanza alla sentenza. Apre con “La Croce che unisce” in taglio alto e, nel sommario, “La Cassazione respinge il ricorso di un insegnante: il crocifisso non discrimina, è simbolo di esperienza di una comunità e tradizione culturale di un popolo”. Poi le prime righe: “Esporre il crocifisso nelle scuole non è una condotta discriminatoria. Lo ha stabilito la Suprema Corte…”. A fianco, l’articolo di fondo: “Ma la libertà non è negativa”. I testi occupano l’intera settima pagina e una porzione della seconda. In una scheda che pretende di ricostruire “il fatto”, si legge che il docente “Soccombe definitivamente nella battaglia legale”. Per la Cei è interpellato mons. Russo: “i giudici della Suprema Corte confermano che il crocifisso nelle aule scolastiche non crea divisioni o contrapposizioni, ma è espressione di un sentire comune”; parole che devono aver ispirato il titolo di apertura.

Il costituzionalista Filippo Vari dell’Università Europea di Roma (della congregazione dei Legionari di Cristo), intervistato, rileva incertezze sul versante pratico, in particolare se qualcuno chiederà di togliere il crocifisso dalla propria aula. Allo stesso tempo lamenta: “Sarebbe stato possibile per gli organi rappresentativi scegliere una soluzione. Qui invece è la Cassazione che ha creato la regola”. Viene da chiedersi se la sentenza sia stata letta da quanti se ne occupano, e vengono in mente alcune rettifiche spicciole: non si tratta genericamente di “Croce” ma del crocifisso cattolico; non si dice affatto che unisce e non discrimina mai, dipende; si afferma proprio la libertà negativa dei non credenti, che ricade sotto la libertà di religione, al pari di quella dei credenti; Coppoli non soccombe affatto, anzi riceve finalmente giustizia; i giudici non confermano che il crocifisso sia “espressione di un sentire comune”, riconoscono soltanto che alla sua affissione “si legano, in un Paese come l’Italia, l’esperienza vissuta di una comunità e la tradizione culturale di un popolo”, il che non impedisce che si creino di fatto “divisioni o contrapposizioni”, come il caso di specie dimostra; gli “organi rappresentativi” finora non hanno mostrato alcun interesse alla regolamentazione delle affissioni scolastiche (lo stesso crocifisso è previsto soltanto da due regi decreti risalenti al Ventennio, per il resto capita già di veder affisso un po’ di tutto); il Parlamento resta naturalmente liberissimo di intervenire in materia, nel rispetto però dei principi di laicità, uguaglianza, libertà, pluralismo ecc., senza imporre il mero criterio quantitativo o numerico, cioè la tirannia della maggioranza.

La Cassazione non ha prescritto nuove regole, ha proposto dei semplici suggerimenti, in una situazione come quella in esame si sarebbe potuto ad esempio: (a) affiggere qualche altro simbolo alternativo o una frase emblematica, magari di impronta laica; (b) collocare altrove il crocifisso, non alle spalle del docente; (c) rimuovere momentaneamente il crocifisso stesso. E, tutto sommato, le autonome azioni di Coppoli andavano già in questa giusta direzione.

Il “Giornale” dedica alla vicenda l’articolo di spalla dal significativo titolo “La Cassazione mette in croce il laicismo”. L’autore ce l’ha con la laicità e con la libertà di religione “negativa”, che ritiene espressioni di un aborrito e non meglio precisato “pensiero debole”. Appare poco interessato ai fatti e per nulla alla sentenza, infatti prende la tangente per le sue personali elucubrazioni teologiche: “Per una volta le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno riconosciuto il patrimonio culturale che il crocefisso rappresenta… E dunque l’effigie del Cristo morente non è un atto di discriminazione… un uomo che (ci si creda o no) predicava il perdono e l’amore… un uomo che ha scelto la sofferenza e la morte a un comodo trono divino”.

Non molto diversamente fa Antonio Socci su “Libero” con “La Cassazione fa mettere il crocifisso ai voti”. L’esposizione del crocifisso non sarebbe un atto discriminatorio in quanto “ad esso si legano, in un Paese come l’Italia, l’esperienza vissuta di una comunità e la tradizione culturale di un popolo”. Nell’aula scolastica rimanderebbe “alla nostra tradizione culturale e alla nostra identità nazionale”; e riguarderebbe “la nostra cultura, l’identità del nostro popolo, quindi tutti”. Questo perlomeno Socci ritiene di aver letto nella prima parte della sentenza, per cui si stupisce che poi, nella seconda parte, il crocifisso sia ridotto a mero “simbolo confessionale”.

Passa dunque a evocare le opinioni di Croce e Chabod a proposito della rilevanza storica del cristianesimo, come se ciò in qualche modo giustificasse la presenza del simbolo cattolico in classe. Al proposito può invece più pertinentemente citare le note parole di Natalia Ginzburg, che definisce “scrittrice ebrea” per cercare di conferire obiettività alle sue opinioni e nasconderne l’evidente fideismo (tra l’altro, la scrittrice certo non era ebrea in senso religioso: la madre in realtà era cattolica, e lei stessa non risulta essersi mai convertita).

Infine impercettibilmente compare il maiuscolo, dal crocifisso si passa al Crocifisso, dal manufatto all’uomo-dio. Qui ci limitiamo a ribadire che il carattere tradizionale dell’affissione del crocifisso non è richiamato dalla Cassazione per escluderne il carattere discriminatorio. È evidente che esistono tradizioni discriminatorie e discriminazioni tradizionali. L’affissione invece non è ritenuta discriminatoria quando sorga dalla stessa comunità interessata, nel caso nostro preferibilmente dalla singola classe che frequenta la specifica aula, e quando insieme tenga in pari conto dei diritti di quanti in quel simbolo non si riconoscono, pure se si trattasse di un singolo individuo, alunno o docente della classe.

La “Verità” arriva a titolare: “La Cassazione benedice il crocifisso” e, fra virgolette nel titolo: “Appenderlo in aula non discrimina”. Meglio il titolo del “Quotidiano nazionale” (ovvero: “Nazione”, “Carlino”, “Giorno”), ancora tra virgolette: “Crocifisso in classe? Solo se va bene a tutti”. Molto stringati il “Riformista” e la “Notizia”, che però sono corretti nei contenuti. Tra i quotidiani che hanno dato la notizia in modo ricco ed equilibrato, va segnalato il “Tempo”, fin dal titolo: “Sentenza rebus sul crocifisso”, con occhiello: “Può essere esposto «quando la comunità scolastica lo decide in autonomia», magari “accompagnandolo coi simboli di altre confessioni’”, e in sommario: “La scelta della Cassazione: «Appenderlo nelle classi non è discriminatorio ma non si può imporlo»”.

Il primo posto va alla “Stampa”. Assegna alla notizia il taglio medio in prima pagina, col titolo: “Perché il crocifisso in classe adesso non è più obbligatorio” e con le prime righe del bell’articolo, come suo solito, di Elena Loewenthal, che prosegue all’interno sotto il titolo: “Un compromesso non una rinuncia”. La cronaca invece è in altra pagina con titolo tra virgolette: “Crocifisso a scuola, l’obbligo è sbagliato. Si decida col dialogo”. Riassume con completezza, cita con equità sia la Cei che l’Uaar, e conclude con le parole di Coppoli. A proposito della Chiesa, rivela: “I presuli prendono favorevolmente atto che ci sarà una convivenza interreligiosa. Però la reazione è tiepida: sarebbe stata davvero festante – è la voce che emerge dai Sacri Palazzi – se fosse stato scritto che il crocifisso resterà nelle aule”. E sulla sentenza è una voce chiara e diretta: “Dunque non aveva ragione tredici e dodici anni fa il dirigente scolastico di un istituto professionale di Terni che, aderendo alla decisione presa a maggioranza dagli studenti di una terza classe, aveva ordinato l’esposizione della croce in quell’aula senza tentare un «ragionevole accomodamento»”. Finalmente.

Andrea Atzeni

 

 

 

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