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 Home page > Tribuna Libera > La crisi: le proteste, alcune verità e i sintomi di un male antico

La crisi: le proteste, alcune verità e i sintomi di un male antico

Un modello di sviluppo fondato sullo sperpero di risorse, pubbliche o private, non può sostenersi a lungo. Prima o poi queste finiscono e senza una vera crescita economica il sistema entra in una spirale recessiva. Una lezione da trarre anche dalla crisi italiana, greca e spagnola. Arrivare ad indebitarsi per distribuire stipendi e pensioni non meritati, come s’è fatto nei primi due paesi, o per costruire nuove città d’edifici inutili, come si è fatto in Spagna, non è una politica di destra o sinistra; non è keynesiano o altro: è semplicemente folle.

Quello che manca completamente, tanto nei giovani che riempiono le piazze in questi giorni quanto nei politicanti che cercano d’indirizzarne la protesta, è la presa d’atto di questa elementare verità. Si sciopera oggi per il lavoro che non c’è, in Spagna come in Italia, ma nessuno, specie nel nostro paese, osa dire chiaro e tondo che lo stato non può spendere in stipendi un solo centesimo in più di quanto già non faccia e che sarebbe una follia utilizzare eventuali nuovi denari, come quelli che potrebbero derivare dall’introduzione di una patrimoniale (nota: “da destra” la chiedevo su queste colonne già un paio d’anni fa), per altro che per ridurre il debito e per pochi investimenti, mirati ed immediatamente produttivi.

“L’austerità strangola il lavoro” tuona anzi Camusso, lasciando intendere che l’austerità sia una libera scelta e non la mossa obbligata di uno stato che, un anno fa, aveva nelle casse i soldi per tirare avanti 15 giorni. Piuttosto si chieda, assieme a tutti gli altri nostri capipopolo, come diavolo è possibile che in un paese dove i lavoratori ricevono stipendi tra i più bassi d’Europa, in cambio degli orari più lunghi del mondo, le aziende straniere non facciano la fila per impiantare le loro filiali. Piuttosto si chieda come ri-diavolo sia possibile che le aziende italiane delocalizzino, e pare una barzelletta, in Svizzera. Si può dire una volta per tutte che a strangolare il lavoro italiano è, prima di ogni altra cosa, una pubblica amministrazione indegna? Si può ricordare, per la centesima volta, che è la settanta e qualcosesima al mondo per efficienza, secondo le classifiche del WEF? Si può far notare che avere i permessi per fare qualunque cosa (le decine di permessi, licenze e quant’altro che in Italia servono anche per allacciarsi le scarpe) richiede tempi biblici? Che la corruzione è ormai endemica? Che la giustizia civile, di fatto, ormai non esiste più? Che, detto semplicemente, investire in Italia è considerato rischioso quanto farlo in un paese del terzo mondo?

Si tagliano i fondi per la scuola. È una tragedia. Punto. Non ci sono aiuti per le famiglie, non ci sono aiuti per i giovani, non ci sono programmi di edilizia pubblica e in genere i servizi pubblici sono scarsi o inesistenti, a parte la sanità (buona al nord e decente quasi ovunque) e la scuola (mediocre al nord e scarsa al sud). Tutto questo è una vergogna; uno scandalo. È, appunto, da terzo mondo. Si può ricordare, però, che il bilancio del nostro stato vale ormai il 50% del nostro Pil, una cifra da paese scandinavo, e che quasi tutti questi 800 miliardi l’anno se ne vanno in stipendi e pensioni? Se questo diluvio di denaro è speso e in cambio si ha poco o nulla, di chi è la colpa? Del gruppo Bilderberg? Dei perfidi giudei? Dei padroni succhiasangue? Di Monti e della Fornero? Non c’entrano le legioni di dipendenti pubblici assunti per puro clientelismo? Non c’entrano le pletore di dirigenti (ammiragli e generali come capiservizio e direttori di questo o quello) create per la stessa ragione e pagate per dirigere, di fatto, un bel nulla?

E i pensionati? Questi pensionati che secondo la disinformazione piagnona “stanno pagando la crisi”? Balle. Dati alla mano sono l’unica categoria (quelli che in pensione ci sono già) che non sta pagando proprio un bel niente, come pochissimo stanno pagando i dipendenti pubblici. Ad essere massacrati dalla crisi sono i dipendenti del settore privato (in questi anni, secondo Bankitalia, i redditi delle loro famiglie sono diminuite del 15% se operai ed impiegati e del 25% se dirigenti; altro che congelamento degli stipendi). Non strangolano il lavoro, i 650.000 baby-pensionati che ancora riscuotono (fate due conti e scoprirete che, interessi inclusi, il loro ventennio di riposo anticipato ci è costato un centinaio di miliardi) o le centinaia di migliaia di impostori che si nascondono tra i quasi tre milioni d’invalidi che ricevono una pensione? La verità, mentre ancora c’è chi mugugna per l’innalzamento dell’età della pensione, è che il nostro paese spende in previdenza il 14% del Pil, esattamente il doppio della media OCSE; che lo stato, mentre non riesce a trovare la miseria di 600 milioni che servirebbe per rendere decenti le nostre università, deve scucire ogni anno, per pagare le pensioni, 200 miliardi: almeno 70 in più di quelli che spenderebbe se avessimo sempre avuto una normativa simile a quella tedesca.

La verità è che non si crea lavoro senza sviluppo e che non c’è strada, per uscire dalla crisi, che non passi da una graduale (e si spera poco dolorosa) riqualificazione della spesa dello stato e non parta da un recupero di efficienza, lotta all’evasione fiscale compresa, della pubblica amministrazione.

Il resto, le facili scorciatoie sognate e i nemici del Paese inventati di sana pianta, è solo populismo. Vittorio “Manganello” Feltri, uomo dalla penna facile, pochi giorni fa ha scritto che questo è alla radice del comunismo, ma non del berlusconismo. Gli italiani, che dovrebbero avere ancora nelle orecchie gli slogan contro la perfida Albione o l’iniqua Marianna, non dovrebbero avere difficoltà nel riconoscervi, quale che sia il colore delle bandiere che sono sventolate, il proprio peggio.

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