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La crisi idrica internazionale: oro blu, scarsità antropica o naturale?

Nella sua sintesi sulla crisi mondiale dell’acqua e sull’iniziativa di cartellizzare l’acqua del mondo, Maude Barlow ha usato l’espressione “oro blu” una risorsa vitale che assume sempre più le caratteristiche dell’olio-oblio del futuro. Alcune stime indicano che nei prossimi anni l’acqua avrà un giro d’affari del valore di centinaia di miliardi di euro. Questa tendenza è legata soprattutto alla privatizzazione della sua distribuzione che, in particolare in Europa, sta diventando normalità. L’acqua assumerà un valore politico e strategico superiore a quello del petrolio? Molte nazioni già oggi condividono fiumi e laghi, spesso sul confine di stato, che sono le uniche risorse per il loro approvvigionamento idrico.

Numerosi sono i trattati firmati negli ultimi anni per il giusto uso delle acque, ma le situazioni aperte sono molte. Si prenda come esempio la Russia: è bastato un rapporto della FAO che rilancia l’allarme per l’emergenza acqua (“nel 2050 quasi due miliardi di persone potranno restare senz’acqua potabile”), che subito Mosca ha fatto sapere che sarebbe stata pronta ad operare nel mercato dell’oro blu (definito “oro trasparente” dal giornale Novye Izvestia). A tal proposito è datato 16 febbraio 2009 l’articolo di Focus Ecologia e geopolitica sulla cosiddetta “rivoluzione dell’acqua” della Russia che vorrebbe invertire il corso dei fiumi siberiani per irrigare sterminate coltivazioni di cotone e cereali.

Il progetto di deviare una parte dell’acqua dei fiumi come l’Ob (che da solo getta 400 km³ l’anno di acqua dolce nel mare) sarebbe attuato con la costruzione di un canale tra la città siberiana di Khanty-Mansijsk e l’Asia centrale, fino all’Anu Dariya, l’antico fiume Oxus, per portare acqua dai campi di cotone dell’Uzbekistan a quelli di grano delle regioni russe di Orenburg, Kurgan e Tyumen. Alcuni ambientalisti, come l’esperto russo di Greenpeace, Mikhail Kreindlin, ha parlato senza mezzi termini di “pazzia totale” e di un “progetto criminale”. Ma altri esperti hanno espresso giudizi più cauti definendola una buona idea che potrebbe contribuire a salvare l’Europa occidentale da un pericoloso raffreddamento. Senza dubbio un progetto titanico, che avrebbe enormi problemi di finanziamento, visto che la Russia è precipitata in una crisi economica profondissima che rivela i retroscena di un business sommerso che tratta l’acqua come merce piuttosto che come bene sociale. La definizione di “oro blu”, impropria teoricamente perché si dovrebbe parlare di “bene comune dell’umanità” o di “diritto fondamentale alla vita”, chiarisce d’altra parte i contorni di questo approccio economico. L’acqua, al pari dell’aria, è indispensabile per la vita, ma nel corso dei secoli si sta trasformando in commodity da vendere o comprare, da imbottigliare, conquistare, soggetta alle leggi della domanda e dell’offerta e alle performance del rendimento.

E l’acqua, come nuovo petrolio del Ventunesimo secolo, rischia di essere venduta a barile (trenta dollari al barile per la precisione), diventando strumento geopolitico di spartizioni di potere. Ad esempio viene da chiedersi come mai la Cina, sul cui territorio si concentrano più del 40% delle risorse idriche mondiali, si trova ad affrontare una grave penuria d’acqua potabile e irrigua e mettendo al primo posto la crescita industriale, il governo di Pechino non si sia preoccupato di tutelare le risorse ambientali, con il risultato che attualmente un terzo dei corsi d’acqua è inquinato, mentre nelle città il 50% dell’acqua non è potabile. Altro dubbio legittimo: a cosa si deve la differenza tra coloni israeliani e popolazione araba che, pur vivendo negli stessi territori, usufruiscono di differenti possibilità d’accesso e di utilizzazione delle risorse idriche e l’accesso alle stesse diventa fonte di disuguaglianza e tensione, alimentando i problemi legati alla sicurezza? E’ un caso se, in Israele, l’acqua dipende dal Ministero dell’Agricoltura, in Palestina dal Ministero israeliano della Difesa? E’ chiaro che, in molte circostanze in cui l’acqua sembrerebbe disponibile (come in Brasile, Cina, India, Turchia…), larghe fasce della popolazione non riescono a far valere il proprio “titolo valido” come direbbe Amartya Sen.

La capacità di disporre di beni e servizi, tra cui l’acqua (bene primario in termini igienico-sanitari e di sopravvivenza alimentare), dipende sostanzialmente più dalle caratteristiche giuridiche, politiche, economiche e sociali di una certa società e dalla posizione che l’individuo occupa in essa, piuttosto che dalla semplice disponibilità del bene o del servizio in questione. I conflitti per l’accesso all’acqua iniziano all’interno dello Stato, coinvolgendo e opponendo i grossi coltivatori - fautori dell’agricoltura intensiva - ai piccoli proprietari terrieri, gli industriali agli operatori turistici, ma soprattutto tagliando fuori le comunità rurali e indigene, il cui “approccio” all’acqua è per così dire di tipo imprenditoriale e inevitabilmente gli abitanti delle periferie delle megalopoli, in cui le infrastrutture igienico-sanitarie sono poche o nulle. Attualmente nel mondo ci sono circa cinquanta conflitti tra Stati per cause legate all’accesso, all’utilizzo e alla proprietà di risorse idriche. Anche in questo caso, la maggior parte delle analisi citano come causa primaria un divario sempre più ampio tra la domanda e l’offerta e, senza dubbio, si tratta di fattori cruciali: la zona in cui lo “stress idrico” minaccia, da un momento all’altro, di trasformarsi in conflitto armato è quella del Medio Oriente dove il clima e le riserve idriche sono tra i più sfavorevoli del pianeta. Ma molti esperti sottolineano come le spiegazioni basate sulla penuria d’acqua sono solo una mezza verità: basti menzionare ad esempio la Turchia, vero e proprio chateau d’eau del Medio Oriente, con risorse idriche pro capite superiori a quelle italiane e che però combatte da anni con Siria e Iraq per il controllo del Tigri e dell’Eufrate. Quello turco - ma anche quello dell’Egitto nei confronti di Etiopia e Sudan, come di Israele verso i suoi vicini arabi - sono esempi annoverabili nell’“idropolitica” ovvero della politica “fatta”con l’acqua: strumento strategico per assicurarsi il potere e la supremazia economica in una determinata regione.

La minaccia di una guerra per il controllo di territori ricchi di petrolio non rappresenta niente di nuovo dunque, e negli anni a venire l’acqua potrebbe accendere più conflitti politici dell’oro nero: le cosiddette idro-war. E’ sempre di Maude Barlow l’affermazione: “l’acqua promette di essere, nel XXI secolo, ciò che il petrolio è stato per il XX: la merce preziosa che determinerà la ricchezza delle nazioni”. Ma non tutti sono in linea con questo pensiero. Ad esempio secondo Peter Huber, in Hard Green: saving the Environment from the Environmentalists (1999), nell’ articolo The Energy Spiral (2002), ha sostenuto che più energia gli umani usano e più saranno in grado di produrne. L’assunto di base della sua tesi è che le società umane hanno imparato in un processo di “reazione a catena” da lui definito “macchina del moto perpetuo”, ad ottenere quantità di energia sempre più grandi. Parafrasando in maniera semplicistica la sua affermazione, più fette di dolce mangiamo e più ne avremo. Il messaggio è senza dubbio ottimistico, ma non possiamo non riflettere sulla sua credibilità mettendo sullo stesso piano una fonte biologica come l’energia eolica o l’energia solare - la cui traiettoria di crescita si è stabilizzata centinaia di milioni di anni fa - e il prelievo di combustibile fossile o la diminuzione delle risorse idriche il cui processo, come sottolinea Heinberg R., è più simile “ai fenomeni di fioritura in estinzione”.

Alcuni sperano negli impianti di desalinizzazione, ma come sottolinea ironicamente Al Gore (2008) “è improbabile che questa tecnica, come i progetti di prendere al laccio gli iceberg e rimorchiarli dalle regioni polari verso i popolosi tropici, risolva i problemi fondamentali (…)”.

L’uomo moderno (Giddens) o post moderno (Bauman, Harvey, Beckeve) ha solo un punto di partenza e punto d’arrivo in questo processo: assumersi le sue responsabilità. E ancora una volta condividiamo questo pensiero con Al Gore (2008) che scrive: “C’è bisogno, invece, di prendere al laccio il nostro buonsenso. Le piogge ci portano alberi e fiori; le siccità aprono crepe nel mondo. I laghi e i fiumi ci sostentano; scorrono nelle vene della Terra e anche nelle nostre. Ma dobbiamo fare in modo che tornino a sgorgare puri come sono arrivati a noi, evitando di avvelenarli e di distruggerli senza pensare al futuro”.

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