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La PA non è un’azienda: la reintegra per licenziamenti illegittimi

Egregio Titolare,

se la ricorda quella della “lotta ai furbetti del cartellino” e delle riforme “che consentiranno finalmente di licenziare chi demerita anche nella pubblica amministrazione”? Ecco, era uno scherzetto. Lo certifica la Corte dei conti Emilia Romagna, Sezione giurisdizionale, con la sentenza 26 marzo 2018, n. 72.

di Luigi Oliveri
 

 

In estrema sintesi, la vicenda consiste nell’annullamento dovuto a irregolarità procedurali deciso dal giudice del lavoro (con conferma dell’annullamento in appello) del licenziamento disposto per giusta causa da un’azienda pubblica al proprio direttore generale, con condanna al risarcimento del danno, corrispondente alle retribuzioni che sarebbero spettate al direttore licenziato dalla data della risoluzione del rapporto fino alla scadenza naturale del contratto a termine.

Dunque, riassumendo: un’amministrazione rileva atti e comportamenti ritenuti lesivi del rapporto fiduciario col direttore generale e lo licenzia; ma erroneamente non configura il licenziamento come sanzione disciplinare e non attiva le garanzie procedurali necessarie; il giudice del lavoro, senza entrare troppo nel merito dell’esistenza dei presupposti di merito, annulla il licenziamento e condanna l’ente al pagamento degli stipendi mancati; la Corte dei conti condanna gli amministratori dell’ente a risarcire all’erario un danno di fatto quasi corrispondente al danno risarcito al lavoratore.

Come dice, Titolare? Sulla base di quale tecnicismo ciò può avvenire? Fermo restando che nel caso di specie la mancanza procedurale accertata dal giudice è certamente rilevante, ricorderà comunque, caro Titolare, che nell’ultima invasione di pixel da Ella consentita in questo portale, si affermò che la Pubblica Amministrazione, anche se una diffusa vulgata continua a sostenerlo, non è per nulla gestibile “come un’azienda”, perché miriadi di norme differenziano fortemente la normativa. Specie nel campo del lavoro, ove i poteri datoriali delle PA sono infinitamente inferiori e più vincolati rispetto a quelli del privato datore di lavoro.

Il “tecnicismo” è il cosiddetto danno erariale “indiretto”, che si produce nei confronti della PA qualora si riconosca giudizialmente che un dipendente pubblico abbia subito un pregiudizio ingiusto dall’amministrazione di appartenenza, come appunto un licenziamento giudicato illegittimo. Il danno, in particolare, è la corresponsione di stipendi a titolo di risarcimento del danno, in mancanza di controprestazioni lavorative e, quindi, di alcuna utilità per il datore di lavoro pubblico.

Ora, Titolare, detti Lei il problema. Come dice? Sì: “il candidato spieghi come è possibile aspettarsi che la Pubblica Amministrazione licenzi effettivamente propri dipendenti, laddove nel lavoro pubblico, a differenza di quello privato, la riforma Madia ha mantenuto l’istituto della reintegra e, comunque, qualora il giudice del lavoro annulli il licenziamento anche per un codicillo procedurale, quell’amministratore o dirigente pubblico che abbia disposto il licenziamento, possa essere considerato responsabile di danno erariale”.

Immaginiamo cosa accadrebbe se si estendesse (come sarebbe apparso naturale in un rapporto di lavoro pubblico che si pretende “privatizzato”) ai dipendenti pubblici il Jobs Actche ha limitato la reintegra sostanzialmente al solo licenziamento discriminatorio e che come unica tutela per i lavoratori licenziati prevede l’indennità risarcitoria da 4 a 24 mensilità a seconda dell’anzianità di servizio: ad ogni licenziamento considerato illegittimo per qualsiasi motivo dal giudice del lavoro, corrisponderebbe un giudizio di responsabilità amministrativo/contabile davanti alla Corte dei conti, con un’esplosione del contenzioso. Ma soprattutto un micidiale effetto deterrente nei confronti dei datori di lavoro pubblici.

Comunque, anche nell’ordinamento vigente, che, come detto, conferma nel lavoro pubblico la reintegra, ogni risarcimento deciso dal giudice del lavoro nei confronti del lavoratore, non solo per il caso di licenziamenti disciplinari ma per qualsiasi provvedimento disciplinare, dalla multa alla sospensione del rapporto di lavoro con privazione dello stipendio, potrebbe ritorcersi nei confronti di chi decida l’applicazione della sanzione (i titolari degli uffici dei procedimenti disciplinari) in una condanna per danno erariale.

I dirigenti pubblici si trovano, così, intrappolati in un tipico circolo vizioso scatenato dall’impossibile commistione tra pubblico e privato e dalle diverse, quasi opposte, giurisdizioni: da un lato, sono obbligati ad attivare i procedimenti disciplinari, pena incorrere essi stessi in responsabilità disciplinari, civili, penali ed anche erariali, se dalla mancata azione disciplinare derivi un mancato risparmio di risorse (come nel caso della sospensione dello stipendio o del licenziamento); dall’altro, tuttavia, i dirigenti sono chiamati a fare le corse a perdifiato dalla riforma Madia, che ha ridotto termini procedurali, già ampiamente celeri ed accettabili rispetto alle procedure giurisdizionali, da 120 a 30 giorni per i casi di licenziamento dovuti a gravi violazioni (come la falsa attestazione della presenza in servizio). Ma, tali corse espongono ad errori procedurali tali da consentire ai dipendenti di ottenere l’annullamento del licenziamento o della sanzione disciplinare e da esporre il dirigente o l’amministratore pubblico all’azione erariale.

 

In questo quadro, caro Titolare, è ben difficile aspettarsi che davvero la Pubblica Amministrazione possa sentirsi incentivata ad agire con gli effettivi poteri del datore di lavoro. Moltissimi – certamente sbagliando – preferiranno girarsi dall’altro lato e cercare di evitare quanto più possibile licenziare ed attivare procedimenti disciplinari, pur di non dover rispondere alla magistratura contabile.

Il testo unico sul lavoro pubblico, d.lgs 165/2001 dispone all’articolo 5, comma 2, che la gestione del rapporto con i dipendenti venga effettuata dai soggetti competenti con “i poteri del privato datore di lavoro”. In realtà, la congerie di norme e di giurisdizioni che regolano la disciplina del lavoro pubblico in modo fortemente difforme da quella del lavoro privato, rende disposizioni come quella citata sopra affermazioni sostanzialmente vuote: il datore pubblico non ha affatto la medesima estensione dei poteri datoriali privati ed incorre in responsabilità più ampie e risponde a giudici diversi.

Se si vuole davvero disporre una riforma “epocale” della PA, quale quelle fin qui approvate non sono mai state, occorrerebbe affrontare seriamente temi come questi. O, quanto meno, smettere di levare al vento alte lamentazioni se i licenziamenti nel lavoro pubblico sono pochi e rari.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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