• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Attualità > Politica > La “Nuova destra” metapolitica

La “Nuova destra” metapolitica

Matteo Luca Andriola continua nella sua analisi della nuova destra italiana tra gli anni Settanta e Ottanta, entrando nel dettaglio oggi del carattere metapolitico della nuova destra. Buona lettura!

 

Come visto, la destra metapolitica ha saputo più volte anticipare la sinistra nel capire l’evoluzione delle dinamiche del capitalismo e delle strutture politiche italiane. Ciò non toglie che a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta, per parlare della crisi strutturale e istituzionale in atto, la nuova destra metapolitica in Italia si rifaccia ancora all’esperienza della konservative Revolution di Weimar e al catastrofismo di quella stagione storica comparata con la crisi in corso – accentuata dai cambiamenti strutturali descritti prima – a quella weimariana, specie davanti all’assenza di una forza politica capace di capitalizzare la crisi, cosa che al Msi, nonostante la presenza della corrente rautiana da cui il neodestrismo italiano nasceva, non era riuscita a fare. Lo studioso Paolo Farneti, infatti, notava nel 1978 che «non c’è per ora quel fenomeno di formazione e di sviluppo di un movimento politico della crisi, che cioè punta sulla crisi, di cui si autodefinisce e autoriconosce figlio e che della crisi spera di essere compensato in termini di potere. Esso caratterizzò sia la crisi del primo dopoguerra in Italia e la genesi del Fascismo sia, più tardi, la crisi della Repubblica di Weimar e la genesi del Nazional-socialismo»,[1] anche se Revelli sostiene che all’epoca tale movimento esiste, identificandolo nel movimento metapolitico di Tarchi e di de Benoist, anche se non esistevano ancora referenti politici ma tutt’al più culturali, anche se essa identificherebbe nella crisi la sua ragion d’essere e le coordinate della sua azione “gramsciana”.[2]

La nuova destra metapolitica, limitandoci all’Italia, davanti alla portata catastrofica di una crisi che cancellava i soggetti sociali e politici “moderni”, resi obsoleti dai nuovi paradigmi economici, enunciava la «fine di un lungo dopoguerra», l’estinzione cioè di tutte quelle culture politiche novecentesche – marxista, liberale e cristiano-democratica – che avevano caratterizzato l’esperienza della Prima Repubblica, avvertendo da una parte la necessità di uscire dal “ghetto” politico esemplificato dalla sconfitta del 1945, profetizzando «l’imminenza di un “sessantotto nero” in cui rivolta e disagio giovanili non fossero più costretti entro le maglie strette del razionalismo di sinistra, ma potessero esprimersi nel linguaggio caldo dell’esistenzialismo di destra novecentesco»,[3] e dall’altra cercando di fare emergere assieme ad altre intellettualità “della crisi”, come la sinistra postmoderna che si reggeva sul “pensiero debole”, si veda all’epoca Cacciari – ma in seguito ci si rapporterà pure coi Verdi e nei primi del Duemila col movimento no-global, come fatto in Germania dai “Solidaristen” della Neue Rechte, si all’apertura dell’apertura della rivista neodestra tedesca «Wir Selbst» di Henning Eichberg ai Grüne – per convergenze prima, negli anni Settanta, impossibili: «Crisi di referenti, di paradigmi, di identificazioni», nota Tarchi in Quando Schmitt incontra Karl Marx, su «Elementi». «Crisi che deve e può, nel seno dei tradizionali (e anacronistici) aggregati ideologici, spingere la critica ai confini dell’eresia». «Quel che è certo – prosegue Tarchi – è che ormai il sistema destra-sinistra, con la sua rappresentazione assiale, è “fisiologicamente inadatto a esprimere situazioni critiche”. Privilegiando decisioni drastiche di esclusione, suggerendo come unico sbocco in ogni forma di conflitto la puntuale “gravitazione del centro medico” di tutte le componenti del sistema, accompagnandosi allo schema bipolare sul piano dei rapporti internazionale (e rappresentandone, anzi, il logico presupposto), esso si è reso incapace di spiegare l’avvento in sulla scena di nuovi soggetti, che ne vanno determinando, con crescente dinamismo, la progressiva delegittimazione».[4] Alla crisi della contrapposizione destra/sinistra, esemplificata nella disillusione diffusa verso le ideologie e le narrazioni moderne tout court – perché secondo Lyotard «Semplificando al massimo, possiamo considerare “postmoderna” l’incredulità nei confronti delle metanarrazioni»[5] – il neodestrismo da risposte alle contraddizioni della postmodernità ripescando, aggiornandole, dalle istanze e dalla metodologia della Konservative Revolution attiva a Weimar in una prospettiva postmoderna, non rispondendo più come i vecchi evoliani da cui nascevano con la ripresa del «mito incapacitante del tradizionalismo».[6] Infatti, la «costruzione di una griglia interpretativa del divenire storico», tipica del discorso tradizionalista di matrice ciclica, è sì «necessaria ed utile» per rispondere alle «carenze della destra politica», ma ha avuto un aspetto negativo, ovvero «il sorgere di un mito incapacitante, collegato all’attesa della “fine di un ciclo”, ineluttabile, ed a rifuggire da ogni opzione politica per privilegiare solo la formazione personale»[7]Si fa propria la “metafisica della crisi” di quell’esperienza nella Germania fra le due guerre, vista come «rivolta dei valori qualitativi contro la reazione dei pregiudizi borghesi e proletari, nel tentativo rivoluzionario di conservare ciò che è eterno, imperituro nell’esperienza spirituale e materiale di un individuo, di un popolo di una civiltà»,[8] e la si proietta al presente, vedendo la Germania dei Freikorps e di tutti quei sodalizi avversi al “Nuovo Ordine” di Versailles il paradigma esistenziale di una rivolta non più contro il mondo moderno, ma postmoderno. Un “pensiero forte” anti-postmoderno figlio però della postmodernità vista la fluidità dei referenti e il tentativo di “contaminarsi” con l’altro da sé (dal “gramscismo di destra” alla rilettura recente della crisi finanziaria del 2008 fatta usando le categorie marxiane), a cui la cultura di sinistra non ha saputo che contrapporre un “pensiero debole”, davanti alla crisi del riformismo. Non è casuale il fatto che Giorgio Galli, in La Destra in Italia, libro del 1983 edito dalla casa editrice vicina ai radicali Gammalibri che aggiornava riflessioni fatte nel 1969, sottolineando l’importanza delle novità che stavano emergendo nella destra dell’epoca (compresa quella ‘nuova’ a vocazione metapolitica), scrive:

“La cultura della Destra e le sue proposte politiche non sono un’escrescenza anomala del corpo socio-culturale dell’Occidente. Ne sono una componente da tre secoli minoritaria, che ciclicamente riaffiora come alternativa all’illuminismo riformista (compresa la sua componete cristiana), ogni volta che questa forma culturale basilare all’Ovest dal XVII secolo a oggi incontra difficoltà di riflessione o di progetto. La difficoltà dell’Occidente in questo scorcio di secolo consiste nel problema irrisolto del rapporto fra sviluppo e arretratezza in singoli ambiti nazionali, ma soprattutto a livello mondiale. I ‘limiti dello sviluppo’, per usare un’espressione tipica degli anni Settanta, coesistono col sottosviluppo. È decisivo sottolineare […] che il problema della ‘fame nel mondo’, sul quale si sono ultimamente impegnati i radicali, è un aspetto di questo dramma dell’Occidente. È nella famosa ‘misura in cui’ l’illuminismo riformista (filone nel quale si colloca l’esperienza radicale) non trova a questo problema una ‘sua’ soluzione, che la cultura e la proposta di una gerarchizzazione mondiale del radicalismo di destra potrebbe trovare spazio e consenso […] Se l’illuminismo non è l’ultimo orizzonte del sapere la ricerca culturale da perseguire ha per campo privilegiato le culture alternative, da ritrovare nel nostro passato per scoprire se ci indicano il futuro. In questa prospettiva, anche le parziali novità che la cultura di destra esprime possono essere colte come uno dei pochi segni positivi dei nostri tempi recenti”.[9]

Se la crisi del riformismo, coi “limiti dello sviluppo”, apre spazio a una cultura reazionaria con proposte di “gerarchizzazione mondiale”, le aperture culturali della sinistra a favore della cultura antimoderna – il che non significa ovviamente negare l’esistenza di una cultura di questo tipo, com’è evidente – hanno favorito il suo sdoganamento.

“Il fallimento del tentativo di portare a compimento il progetto moderno di emancipazione umana tramite una spinta decisiva nel corso del secondo dopoguerra, e in particolare con il ciclo di lotte 1968-’77 – spiega il marxista Stefano G. Azzarà –, è il fallimento di un ciclo rivoluzionario vissuto soggettivamente con grande intensità ma sconfitto anzitutto dalla forza superiore dell’avversario, oltre che dalle proprie contraddizioni interne. Questo esito ha spinto gli intellettuali postmodernisti dell’estrema sinistra, e un’intera generazione con loro, a salvare se stessi riversando ora all’interno, in una dimensione tutta privatistica, quel radicalismo che non aveva retto all’urto con la realtà esterna. E li ha spinti reinterpretare la libertà positiva in una chiave univocamente negativa che si risolve in ultima istanza nell’anarchismo del consumo. Senza consentire loro di accorgersi che quel riflusso che stavano assecondando – «collocarsi in maniera costruttiva nella condizione post-moderna», «vivere positivamente quella vera e propria età post-metafisica che è la post-modernità», diceva Vattimo prima della sua estrema svolta “comunista” – costituiva il più efficace fiancheggiamento della rivincita neoliberale. Come hanno spiegato persino Negri e Hardt, «le strategie postmoderniste… che a prima vista appaiono così libertarie, non costituiscono alcuna minaccia, bensì coincidono con le nuove strategie di potere a cui forniscono, anche involontariamente, un importante sostegno!»”.[10]

E mentre il grosso della cultura della sinistra sposa il pensiero unico figlio di tale lettura postmoderna, fornendo, come notano anche Toni Negri e Michael Hardt, “un importante sostegno” alle nuove strategie di potere dominante, la cultura antimoderna non si ferma all’ondata di fine anni Settanta e inizio anni Ottanta, ma perfeziona le sue riflessioni in prospettiva all’evoluzione della struttura capitalistica, specie dopo la caduta del muro di Berlino, quando l’incedere della globalizzazione mostra sempre più il suo volto fatto di contraddizioni, e l’America smette di farsi scrupoli nell’ingerenza, stavolta militare, nella sovranità dei paesi. E in quella fase – mentre la sinistra è smarrita ed è spesso succube di tale visione del mondo al punto che è possibile parlare di una “sinistra imperiale” che fa sua una visione eurocentrica con l’inevitabile rimozione della questione colonialista e imperialista, diventando speculare a quella riformista e liberale –[11] che l’area che guarda alle riflessioni metapolitiche elaborate dal Grece e da de Benoist – comprendendo anche liberi battitori che l’avevano abbandonata, da Guillaume Faye a Pierre Vial passando per l’area che nel 1994 anima Synergies européennes e da lì Terre et Peuple – non sta ferma, ma elabora riflessioni per contrapporsi a quel sistema mondialista che uccide i popoli omologandoli al mercato unico globale.

È nel 1999 il manifesto noglobal del Grece, La Nouvelle Droite de l’an 2000, dove de Benoist e Champetier scrivono che nell’epoca della globalizzazione – lodata dalla sinistra liberale o contestata da altri pur «convinti comunque che si tratti di un fenomeno che, attraverso opportuni correttivi, possa virare verso orizzonti positivi», convinti «che possa esistere insomma una globalizzazione “dal volto umano”, [e] che sia possibile in altri termini, definire e imporre una nuova governance» –[12] «il liberalismo non si presenta più come un’ideologia, ma come un sistema mondiale di produzione e riproduzione degli uomini e delle merci, sovrastato dall’ipermoralismo dei diritti dell’uomo [rappresentando] il blocco centrale delle idee di una modernità che ci sta consumando»,[13]contro cui lanciare un’offensiva rivoluzionario-conservatrice. Sarà in quegli stessi anni Novanta, quando gli squilibri della globalizzazione accentuano i flussi migratori, che il post-neodestrista Guillaume Faye (che abbandona il Grece nel 1987 uscendo momentaneamente di scena), visto che i nuovi «eventi geopolitici e sociali rivelano l’emergere, in maniera tumultuosa e violenta, di problemi religiosi etnici, alimentari e sanitari»”, cioè una «convergenza delle catastrofi» che parte da una forte “colonizzazione di popolamento” migratoria, risponde con L’archéofuturisme proponendo un “costruttivismo vitalista” e aprendo un dibattito nella destra populista ed identitaria europea dando imput senz’altro non graditi al Grece perché islamofobi, ma rivolti ad un’area militante in grande difficoltà e desiderosa di riflessioni, proponendo «Il ritorno dei valori arcaici [che] non deve essere concepito come un ritorno ciclico al passato (dal momento che questo passato ha, in tutta evidenza, fallito, poiché ha dato vita a una catastrofica modernità), bensì come un riemergere di configurazioni sociali arcaiche in un contesto del tutto nuovo. Detto in altre parole, si tratta di applicare soluzioni antichissime a problemi totalmente inediti; ovvero di ricorrere a un ordine dimenticato ma trasfigurato da un contesto storico differente», perché «Proiettati nel futuro, i valori dell’archè sono riattualizzati e trasfigurati. Dunque il futuro non è la negazione della tradizione e della memoria storica del popolo, ma la loro metamorfosi e dunque, in conclusione, le rafforza e le rigenera».[14]

Anche la crisi dell’unipolarismo degli anni Novanta (in barba ai cantori della “fine della storia” e del trionfo del pensiero unico neoliberale) ha spinto i vari settori della ‘nuova destra metapolitica’ europea a fare delle riflessioni: infatti, con l’emergere di un nuovo multipolarismo per l’effetto di un bilanciamento che produce l’entrata in scena di nuovi attori politici e per la notevole riduzione del divario tra le varie potenze mondiali che sembra delinearsi dopo la crisi economica del 2008,[15] situazione concretizzatasi con la crescita economica dei paesi che fanno parte dei Brics (acronimo che indica Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, nazioni che, pur con sistemi economici diversi tra loro sono caratterizzati da tassi altissimi di crescita del Pil, al punto che uno studio del 2001 indicava che entro il 2050 supereranno Usa, Giappone, Germania, Francia, Inghilterra e Italia, e tutti accomunati dall’alto tasso di demografico), e il rinsaldarsi di una partnership strategica globale fra la Cina Popolare e la Federazione Russa, un’asse strategico che da una parte accelera la tabella di marcia verso l’integrazione economica eurasiatica e il consolidamento di un mondo multipolare anche grazie alla guerra dei dazi voluta da Donald J. Trump e al consolidamento della “Nuova Via della Seta” annunciata da Xi Jinping nel 2013, non ha trovato le nuove destre culturali. La classica Nouvelle droite ha messo da parte le passate riserve con la corrente di Aleksandr Dugin e, come detto nella trattazione, è divenuta eurasiatista essa stessa, mentre quest’ultima area, con la nascita della “Quarta Teoria Politica”, è arrivata ad autonominarsi “Nouvelle droite 2.0”, a riprova che tale area, dal 1968 quando è nata, non è mai stata statica, e ispirandosi all’eclettismo culturale della konservative Revolution e all’oltrepassamento dell’antinomia destra/sinistra, crea un “pensiero forte” che pur antimoderno, non è un mero ritorno al passato, dato che «la modernità – scrivono de Benoist e Champetier ne La Nouvelle Droite de l’an 2000 non sarà superata da un ritorno al passato, ma dal ricorso a valori premoderni in un’ottica risolutamente postmoderna».

A queste riflessioni i settori più culturalmente preparati del nazional-populismo di destra vi si abbeverano da anni, e il risultato è la creazione di un’egemonia culturale di stampo reazionario che rende, almeno a parole, l’ondata populista di destra molto più solida rispetto a fenomeni anti-europeisti di sinistra, basti pensare alla débâcle in Francia di Jean-Luc Mélenchon alle europee del 2019, che col 6,9%, crolla rispetto alle Legislative del 2017, quando La France insoumise prende il 19,58% nonostante l’appoggio al movimento di protesta dei “gilet gialli”, a dimostrazione che il consenso elettorale non è sempre direttamente proporzionale all’egemonia costruita, e la cosa è evidente dato che in un’epoca fluida, la forma-partito è in crisi e i flussi elettorali sono molto variabili e repentini. È su questi temi – e cioè sull’esigenza di rinnovare la propria cultura col mutare dell’evoluzione del capitalismo e sull’importanza di costruire una seria egemonia culturale – che la sinistra deve riflettere, oggi che è lei in crisi.

1 – La “Nuova destra” italiana tra crisi di sistema e crisi istituzionale

2 – La sinistra italiana e la “Nuova destra”

3 – La “Nuova destra” metapolitica


[1] P. Farneti, La democrazia in Italia tra crisi e innovazione, Edizioni della Fondazione Agnelli, Torino 1978, p. 15.

[2] Cfr. M. Revelli, La nuova destra, in F. Ferraresi (a cura di), La destra radicale, cit., pp. 154, 155. 

[3] M. Revelli, Le due destre, cit., p. 42. L’autore fa riferimento a M. Tarchi, Introduzione ad A. de Benoist, Visto da destra. Antologia critica delle idee contemporanee, Akropolis, Napoli 1988.

[4] M. Tarchi, Quando Schmitt incontra Karl Marx, in «Elementi», nuova serie, n. 1, novembre-dicembre 1982, p. 8.

[5] J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano 1985, p. 6

[6] M. Tarchi, Cinquant’anni di nostalgia, cit., p. 96.

[7] M. Tarchi, Ipotesi e strategie di una nuova destra, pp. 110, 111. A quel tempo la nuova destra metapolitica contrapporrà ad una lettura ciclica della storia, tipica dei tradizionalisti-rivoluzionari, quella “sferica”. Questo avviene nell’estate 1979, quando viene pubblicato il n. 33 della rivista del Grece «Nouvelle École», consacrato a L’idée nominaliste, svolta nietzscheana che partiva dal presupposto filosofico secondo cui «Ogni concezione del mondo inegualitaria è fondamentalmente nominalista», porterà la corrente grecista a contrapporre alla visione ciclica della storia una di tipo sferico mutuata da Nietzsche («la sfera possiede una dimensione supplementare, può in ogni momento ruotare in tutti i sensi. Parallelamente, nella concezione generale che vi si ricollega, la storia può in ogni momento svolgersi in qualsiasi direzione, alla condizione che una volontà abbastanza forte le imprima il movimento e tenuto conto, ben inteso, dei processi di cui è teatro. La storia non ha un senso: essa non ha che quello che le danno coloro che la fanno. Essa non “agisce” l’uomo, se non in quanto è “agita” da lui per prima. Le conseguenze per ciò che concerne la libertà dell’uomo sono evidenti»), una antitesi all’incapacitante “pessimismo” tradizionalista: «Per i fautori moderni della teoria tradizionale (Julius Evola, René Guénon) la nostra epoca corrisponde così a periodo di fine ciclo (il Kaly-yugaindiano, l’“età del lupo” nella mitologia nordica). La nostra libertà nei suoi confronti se ne trova pertanto limitata, con tutti i rischi che derivano logicamente dalla pratica di una simile analisi: smobilitazione, politica del peggio…» (A. de Benoist, Fondaments nominalistes d’une attitude devant la vie, in «Nouvelle École», n. 33, estate 1979). Questo porterà ad un’offensiva da parte della destra “rivoluzionario-tradizionalista”: il guénoniano Georges Gondinet, titolare delle Èditions Pardès, criticherà duramente il Grece pubblicando una Lettre ouverte à Alain de Benoist sul n. 11 della rivista evoliana francese «Totalité», che dedicherà al tema un dossier molto caustico nel 1980, La Nouvelle droite à la lumière de la Tradition, dove comparirà un articolo del frediano Francesco Ingravalle che accusa il nominalismo di essere un «costruttivismo eroico», di condurre col decisionismo metodologico e la storicizzazione della verità ad un pensiero tecnico e borghese, in quanto quantitativo, strumentale, utilitarista «da cui emergono le figure del capitalismo e della tecnica». «Dio muore – aggiunge Ingravalle – nell’epoca della tecnica, l’immagine dell’essere si occulta perché l’uomo si fa Dio attraverso l’attività demiurgica della tecnica. È un passaggio necessario, una razionalità sottile che conduce il pensiero relativista a divenire pensiero tecnico. Se la verità non esiste, noi la produciamo tramite la prassi tecnologica; noi produciamo il mondo grazie alla scienza ipotetico-deduttiva e alla tecnica». Si contesta l’eccessiva modernità delle tesi della Nouvelle Droite, il cui modello umano, non è né l’uomo differenziato o il soldato politico, ma l’«esatto opposto: […] l’impiegato indifferenziato del mondo della tecnica, il funzionario di un’organizzazione mondiale sotto le insegne dell’imperialismo» (F. Ingravalle, Sur le fondaments philosophiques de la “Nouvelle droite”, in «Totalité», numero speciale, a. III, n. 11, estate 1980, pp. 80, 81). Un altro autore d’area, Daniel Cologne, attaccherà ulteriormente de Benoist con un pamphlet, denunciando che nella Nouvelle Droite ormai era chiaro che «il viso perverso della sovversione integrale si celasse dietro la maschera della “rivoluzione conservatrice”», arrivando a denunciare «tutte le tare della sovversione liberale: antropocentrismo traboccante, positivismo schietto, scientismo cieco, relativismo morale e critica anticristiana» fondate «su di un “libero esame” che non è altro che l’intreccio dell’anarchia mentale e del terrorismo materialista e ateo» (D. Cologne, Nouvelle Droite et subversion, Collection Métapolitique et Tradition, Parigi 1982, pp. IV, V e, inoltre, cfr. Occhialì [ma C. Mutti], Monothéisme et paganisme, in «Totalité», n. 10, novembre-dicembre 1979, p. 12-19).

[8] G. Malgieri, Prefazione di A più Mani, Proviamola nuova. Atti del seminario “Ipotesi e strategia di una Nuova Destra”, cit., p. 16.

[9] G. Galli, La Destra in Italia, Gammalibri, Milano 1983, pp. 15, 16.

[10] S. G. Azzarà, Democrazia cercasi. Dalla caduta del Muro a Renzi: sconfitta e mutazione della sinistra, bonapartismo postmoderno e impotenza della filosofia in Italia, Imprimatur Editore 2014.

[11] Cfr. D. Losurdo, Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere, Laterza, Roma-Bari 2017.

[12] M. Fraquelli, A destra di Porto Alegre. Perché la Destra è più no-global della Sinistra, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, p. 7.

[13] A. de Benoist, Ch. Champetier, La Nuova Destra del 2000, in «Diorama letterario», nn. 229-230, ottobre-novembre 1999, pp. 13-31 (ed. orig. La Nouvelle Droite de l’an 2000, in «Éléments», n. 94, febbraio 1999).

[14] G. Faye, Archeofuturismo, Società Editrice Barbarossa, Cusano Milanino 2000, p. 69.

[15] Cfr. K. Waltz, Structural Realism after the Cold War, in G. J. Ikenberry (ed.), America Unrivaled: The Future of the Balance of Power, Cornell University Press, Ithaca (NY) 2002, pp. 29-67.

Questo articolo è stato pubblicato qui

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox


Pubblicità




Pubblicità



Palmares

Pubblicità