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La BBC sull’Iraq: prospettive per il paese a dieci anni dall’occupazione

Uno dei paesi più pericolosi al mondo, ma con un futuro possibile da costruire. È questo il sunto dell’analisi della nuova trasmissione della BBC “The Editors”, che nella prima puntata ha concentrato la sua analisi sull’avvenire dell’Iraq all’indomani del decimo anniversario dell’invasione statunitense del marzo 2003.

 

Il breve reportage mostra l’Iraq dei nostri giorni coinvolto in un intenso, e per certi versi stupefacente, processo di assestamento; scorrono immagini dell’inviato che cammina per le strade di una luminosa e chiassosa Baghdad, animata dal chiacchiericcio delle famiglie che dopo anni di restrizioni possono finalmente godersi una giornata spensierata al luna park.

L’eccezionalità di queste immagini è evidente se si considera che la questione irachena non è più materia d’analisi per i media italiani, salvo qualche servizio della durata di pochi istanti in occasione di attentati.

Per meglio comprendere le problematiche del moderno stato iracheno non ci si può non soffermare, seppur brevemente, sulle conseguenze della formazione dello stato avvenuta per mano dei britannici negli anni ’20 del Novecento e causa di molte delle problematiche del paese.

In quell’occasione i confini dell’Iraq vennero tracciati a tavolino senza tenere conto delle differenze etnico-religiose della popolazione; fu così che la minoranza sunnita si trovò a essere parte dominante in un paese in cui nei decenni addietro lo sciismo era gradualmente divenuto confessione maggioritaria grazie alle migrazioni e al proselitismo del clero del confinante impero iraniano; la terza componente, quella curda, stanziata nel Nord venne anch’essa relegata ad un ruolo di subordinazione.

Le tensioni sopite fino alla fine dell’era Saddam Hussein - fautore di un regime sostanzialmente laico, ma proveniente da una famiglia di confessione sunnita - sono venute allo scoperto dopo l’invasione americana. Sciiti e curdi hanno finalmente visto la possibilità di capovolgere la divisione dei poteri con gli scontri che hanno portato alla guerra civile prima e con le storiche elezioni del 2005 poi.

Alla rinascita del clero sciita, simboleggiata dall’eminente ‘Ali al-Sistani e dall’eccentrica figura di Moqtada Al-Sadr ha fatto da contraltare il risentimento sunnita, estromesso dal potere dopo anni di dominio.

Timidi segnali di riconciliazione compaiono. La diffusione di matrimoni misti ad esempio. Le tracce del più recente e doloroso passato non sono però cancellate. Fadayyl Ahmid, funzionario di polizia, controlla decine di auto ogni giorno al fine di prevenire attentati, mettendo a rischio la propria vita.

“Ti pongo la domanda che nessuno dovrebbe mai porre” chiede l’inviato ad un panettiere di Baghdad. “Sei sciita o sunnita?”. “Ana muslim, wa ana ‘Iraqyy” risponde l’uomo. Sono prima di tutto musulmano e poi, iracheno.

Non mancano però i motivi di pessimismo. E questi vengono tutti dall’apparato governativo, con governi inefficaci guidati da figure poco competenti mosse spesso da mire personali.

“L’Iraq non è un paese perfetto. Ma forse non deve esserlo. Deve solo funzionare meglio”, sentenzia infine John Simpson seduto ad un tavolo di uno spartano ristorante.

Ragioni di preoccupazione potrebbero originarsi dalle mire dei curdi che, sempre più consci del loro crescente potere, potrebbero spingere per l’autonomia.

I sunniti potrebbero trovare una via di riconciliazione con la realtà che li vede oramai minoranza se saranno in grado di distribuire equamente la ricchezza originata dal petrolio. “I do think Iraq has a future” è il sigillo dell’analisi dell’inviato, prima di godersi una porzione di samak masguf.

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