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L’oro della munnizza in Sicilia. La discarica di Furnari

La storia di Furnari, piccolo centro collinare della provincia di Messina, a prevalente economia agro-turistica è un esempio di come l’inviolabile diritto a vivere in un ambiente sano sia stato ripetutamente violato a tutto vantaggio del business di pochi soggetti senza scrupoli.

Il paese, che conta all’incirca quattromila anime, da oltre un decennio vive sotto la minaccia della discarica di contrada Zuppà al confine tra Furnari e Mazzarrà Sant’Andrea, le cui conseguenze nefaste si riversano, prevalentemente, sul territorio e sugli abitanti furnaresi.

Più o meno controllata, è stata allestita su di un sito alluvionale imbrifero a ridosso di un torrente, mangiandosi un’intera collina e stravolgendo l’assetto del territorio - un tempo fiore all’occhiello dell’agricoltura e del vivaismo locale.

Il sito realizzato nel lontano 2001 - su iniziativa dell’allora sindaco mazzarrese Sebastiano “Nello” Giambò - come «soluzione temporanea al grave problema dello smaltimento di rifiuti solidi urbani» per sopperire alle esigenze di alcuni comuni della provincia, complice uno stato di continua “emergenza” rifiuti e con l’avallo delle pubbliche istituzioni − che hanno sempre trovato molto più comodo continuare a mantenere in vita una discarica che non sarebbe mai dovuta nascere, tra autorizzazioni “stabilmente provvisorie”, proroghe e ampliamenti, e che è invece cresciuta fino a diventare una delle tre più grandi discariche della Sicilia.

Solo nel 2010 a Mazzarrà sono state smaltite 236.226 tonnellate di rifiuti a fronte delle 334.810 prodotte nello stesso anno nel territorio provinciale (fonte: Rapporto ISPRA 2012).

Nel 2011 qui è stata smaltita anche la spazzatura proveniente dagli impianti di Tufino e Gigliano in Campania, in violazione delle leggi vigenti e con buona pace delle preposte istituzioni regionali e provinciali.

La sua gestione, inizialmente esercitata dal Comune di Mazzarrà Sant’Andrea, nel 2002 è passata ad una società a capitale misto pubblico-privato, la Tirrenoambiente, che è la protagonista assoluta di questa storia: una società diventata monopolista per caso perché ha scelto di investire nei rifiuti e ha fatto fortuna, tenendo in pugno, di fatto, le varie amministrazioni comunali, provinciali e regionali che si sono avvicendate nel tempo e che non hanno mai fatto nulla per rimediare allo scempio.

Società che in più di un’occasione è finita sotto i riflettori della magistratura tra accuse di conflitti di interessi e rapporti sospetti con esponenti mafiosi, ed è stata oggetto di diverse interrogazioni parlamentari (Di Pietro, De Toni e Fava).

Il suo capitale sociale (2.065.840 euro) è detenuto per il 45 per cento dal comune di Mazzarrà Sant’Andrea. Tra i privati, che messi insieme arrivano al 49 per cento, le quote maggiori sono detenute dalla Ederambiente (21 per cento), dalla Secit e dalla Gesenu (entrambe con il 10 per cento). Le altre quote private sono detenute dalla Ecodeco, San Germano, Cornacchini, Themis e Bioener, società che forniscono il know how necessario. In particolare, il know how fornito da Ederambiente e Gesenu è stato quello della raccolta e del trasporto dei rifiuti, lavoro che hanno svolto fino al 2010 proprio nell’ambito di riferimento dell’impianto (ATO ME 2).

In pratica, chi ha raccolto la munnizza è socio della discarica che li ha smaltiti: un intreccio che lascia spazio a conflitti di interessi, secondo Legambiente Sicilia e la Commissione bicamerale per gli illeciti connessi al ciclo dei rifiuti.

La stessa Commissione si è occupata della società mista e della sua discarica anche a seguito dell’avvio dell’inchiesta Vivaio condotta dalla Procura della Repubblica di Messina. Qui, si legge nella relazione della commissione, «sarebbe emersa una sorta di gestione non ufficiale da parte della mafia barcellonese, e in particolare da parte della famiglia mafiosa di Mazzarrà Sant’Andrea».

L’inchiesta ha coinvolto i vertici della Tirrenoambiente e il 28 marzo nella sentenza di primo grado del processo Vivaio alla mafia delle discariche, tra gli altri, è stato condannato a 14 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa anche l’ex presidente (dimessosi proprio in seguito al suo coinvolgimento nell’indagine), Sebastiano Giambò. Ciò non ha tuttavia impedito alla società di ottenere ben due autorizzazioni – rilasciate dalla Regione Siciliana (2007 e 2009) – all’allargamento dell’impianto fino a una capacità d’abbancamento di 1.720.000 metri cubi di spazzatura, che tradotta in introiti potrebbe portare un incasso complessivo superiore ai 130 milioni di euro.

Un business molto redditizio per la Tirrenoambiente. Solo nel 2011 dalle sue molteplici attività (smaltimento dei rifiuti, produzione di energia elettrica da fotovoltaico e combustione di biogas, ecc.) si sono ottenuti ricavi netti superiori ai 31 milioni di euro (con un incremento di oltre 10 milioni rispetto all’anno precedente), che hanno consentito ai soci (pubblici e privati) di spartirsi circa un milione di euro di dividendi, oltre a recuperare «crediti pregressi di rilevante entità», con la Regione siciliana che nei primi mesi del 2012 «ha erogato una somma pari al 15% del credito vantato nei confronti della spa Ato Me 2 (ammontante a oltre 30 milioni di euro)».

Inoltre, è in dirittura d’arrivo il completamento di alcuni nuovi impianti che trasformeranno il sito di contrada Zuppà nel più grande polo industriale dei rifiuti della regione.

Proseguono infatti i lavori per la realizzazione dell’impianto di biodigestione anaerobica e biostabilizzazione dei rifiuti e dell‘impianto di trattamento dei percolati. Impianti che potrebbero essere messi al servizio di altre discariche, incrementando in tal modo il giro d’affari dei signori dei rifiuti.

Oltre ad essere stata coinvolta in fatti di mafia, bisogna aggiungere che sulla gestione dell’invaso di Mazzarrà sono state avviate diverse indagini da parte della Procura della Repubblica di Barcellona P.G. - i vertici della Tirrenoambiente avrebbero tralasciato di rispettare tutte le leggi in materia (l’ex presidente del Cda Giambò e l’Ad Innocenti sono imputati, in concorso per interruzione di pubblico servizio e per avere omesso di predisporre strumenti idonei alla captazione del biogas, le cui esalazioni hanno arrecato danni e molestie alla popolazione di Furnari; per l’Ad Innocenti è stata inoltre disposta l’imputazione coatta per il reato ambientale di gestione di rifiuti non autorizzata; mancanza di autorizzazione per la realizzazione degli impianti per la produzione di energia dal biogas, sequestrati recentemente dai carabinieri del Noe) e quindi legittimamente non possiamo non porci il dubbio se, di fatto, oggi, contrada Zuppà non sia una discarica illegale.

Ma c'è di più. Tirrenoambiente dovrà adeguarsi alle nuove normative emesse dal Ministero dell’Ambiente in materia di trattamento dei rifiuti prima del conferimento in discarica. La circolare del 6 agosto scorso ha, infatti, disposto la scadenza del regime transitorio, che dal 2009 consentiva l’applicazione della tritovagliatura, così da selezionare i rifiuti conferiti dai Comuni attraverso un pre-trattamento. Il Ministero ha, quindi, disposto che per il rispetto dei requisiti imposti dalla Comunità Europea per il conferimento in discarica dei soli rifiuti può essere applicato solo il trattamento della bioessiccazione o la cosiddetta digestione anaerobica.

La discarica di Mazzarrà Sant’Andrea in questo momento non sarebbe in regola con questi parametri, ma potrebbe diventarlo con l’attivazione dell’impianto di biostabilizzazione, che è già stato realizzato nella parte edilizia, ma entrambe le autorizzazioni (all'ampliamento e all'impianto) sono state annullate dal Tar di Catania nel dicembre 2012 e se verranno riconfermate dal Cga a novembre, soldi o non soldi, Tirrenoambiente non sarebbe più legittimata ad operare.

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